12 anni schiavo, di Steve McQueen
L'ultima tentazione di Steve McQueen è la rappresentazione autenticamente realista, dunque scandalosa, della Passione. Ma l’autore non sa spingersi oltre, al di la del convenzionale, utilizzando uno stile che promuova l'identificazione piuttosto che il confronto. Questo cinema è ancora una volta una sorta di fecondazione trasversale tra il desiderio di creare e la fatica di continuare a creare
Negli anni precedenti alla Guerra di Secessione, Solomon Northop, uomo di colore libero, vive a New York con la sua famiglia e si guadagna da vivere facendo il falegname di giorno e il violinista di notte. Ingannato da due agenti di spettacolo, viene rapito e venduto come schiavo in una piantagione di cotone in Louisiana, dove rimarrà per dodici anni sotto il controllo dello schiavista Edwin Epps (Michael Fassbender). Solo grazie all'intervento dell’abolizionista canadese Samuel Bass (Brad Pitt), Solomon troverà il modo di riprendersi la sua vita, dopo aver subito le peggiori torture e violenze. Da una storia vera, basata sulle memorie di Solomon Northup scritte nel 1853, già utilizzate per un TV movie realizzato nel 1984, American Playhouse: Solomon Northup's Odyssey. Acclamato dalla stampa estera e con 7 nomination ai Golden Globes, e numerosi premi vinti, il film corre anche per l’Oscar. Steve McQueen tre volte su tre (dopo Hunger e Shame) decide di lavorare con Michael Fassbender e, sempre attraverso il supplizio, l’alienazione, chiede al suo cinema e ai suoi interpreti di attraversare la storia americana, insieme a Lincoln e Django, Spielberg e Tarantino.
La frusta spella la carne nera e svilisce i corpi fino all’annullamento. Si potrebbe dire, ma qualcuno l’avrà già fatto, che il film non sembra essere realizzato dallo stesso regista di Hunger e Shame, e che costui avrebbe ceduto al canto delle sirene hollywoodiane, confezionando un “mainstream” senza mezzi termini. Sarà pure, ma certamente Steve McQueen non è difficile scovarlo comunque. È la stessa narrativa filmica di sempre che inevitabilmente lo ha portato ad allontanarsi dal cinema classico per adottare un approccio più libero che fa della casualità e dell'aleatorietà i suoi punti di forza. L'uso della camera a mano, la trasgressione dei confini tra immaginazione e realtà, tra lo spazio di chi osserva e quello del film, e soprattutto l'interruzione della continuità del racconto per cui le sequenze non si succedono l'una dopo l'altra, bensì fanno parte di blocchi narrativi discontinui. Corpi sullo sfondo che si muovono come ombre senza spessore e senza forza reattiva al cospetto di un uomo al cappio che a stento tocca terra con la punta dei piedi. Primi piani insistiti, dilatazione dello sguardo fino allo spasimo in un mondo che si spinge all’esplorazione dei limiti fisici, cercando di superarli attraverso un’arte multimediale che condensa a tratti, impercettibilmente, cinema, videoinstallazione, scultura, fotografia, disegno.
Il concetto di creatività interagisce tra i labirinti dello specialismo e dell’estremismo espressivo contemporaneo. Questo cinema è ancora una volta una sorta di fecondazione trasversale tra il desiderio di creare e la fatica di continuare a creare: un tentativo di rafforzare l’energia creativa che non permetta alla propria pratica di assumere una forma concreta e fastidiosamente estetizzante. È la Passione di Solomon. Secondo Kierkegaard "il segno della fede è precisamente la crocifissione della ragione". La ragione diviene, come Gesù, un agnello sacrificale destinato a patire una lunga "via crucis" di flagellazioni e sputi, per togliere i peccati dal mondo. Risultato di questa premessa è l'ossimoro, secondo cui si dovrebbe vedere l'essenza dell'incarnazione nel passaggio dal divino all'umano. O, in assenza del Padre, ci si dovrebbe accontentare del Figlio di colore. O si dovrebbe ammettere che Dio non è ancora arrivato, ma continuare a sperare che arrivi, religiosamente "aspettando God(ot)". O si potrebbe essere credenti soltanto non credendo, o sacri essendo profani, e così via paradossalmente. "Ecco l'uomo" di McQueen, ma non la fisicità delle emozioni (quelle di Django, per intenderci) per cui il trascendente diventa l'immanente che vive nella vibrazione di un gesto, nell'esperienza di un volto, nella forza di una parola (quella di Lincoln, per intenderci). Il credo dell'autore prova a farsi carico, da una prospettiva teologica, delle problematiche di classe, razza e genere: rivolgendosi cioè a Solomon come alternativa a Che Guevara, Malcom X o Bobby Sands, in quanto eroe per la sopravvivenza.
L'ultima tentazione di McQueen è la rappresentazione autenticamente realista, dunque scandalosa, della Passione. Non è indecente perseguire l'unicità del reale, dunque l'aderenza della forma artistica ad aspetti di realtà. L’autore non sa spingersi oltre, al di la del convenzionale, utilizzando uno stile che promuove l'identificazione piuttosto che il confronto. Per più di due ore ci si trasforma nella figura santa e martoriata sullo schermo, mentre i nostri problemi personali, le nostre colpe, i nostri peccati vengono sostituiti da preoccupazioni nobili e purificatrici. Il dramma spirituale, come il dramma romantico, diventa un modo per sottrarsi al dramma umano. Lo scontro tra umano e spirituale viene evitato. L'evento decisivo non è una spiazzante scossa stilistica, ma costituisce il culmine dei mezzi temporali ricchi adoperati. Convince il pubblico che la spiritualità può essere raggiunta attraverso un intermediario, come diretto risultato dell'immedesimazione. I mezzi temporali ricchi rappresentano una possibilità allettante per il regista, soprattutto se intenzionato (com'è) a fare proseliti. Elevarsi? Perché scomodarsi: McQuenn, dopo Shame soprattutto, è sceso, si è abbassato al livello dello spettatore… Ma c’è qualcosa che rende più inquietante la “passione” di dodici anni (equiparabili, per certi versi, alle 12 ore che precedono la crocifissione di Cristo): la funerea speranza di fuga, l’inesistente respiro del mondo circostante Solomon. Cosicché quello di Solomon, in fondo, è un cammino che mira comunque a una ricomposizione finale e non ad un ritmo nel quale egli stesso assume spessore. Una certa coerenza di stile, il coraggio e innegabili capacità visive di McQuenn più che creare un habitat intorno ai corpi, un luogo fisico che coincida con il mondo, ambiente indistinto, pura estensione, è impegnato negli anni a crearsi una nicchia, una dimensione più soggettiva e antropologica, in cui poter governare indisturbato.
Titolo Originale: 12 Years a Slave
Regia: Steve McQueen
Interpreti: Chiwetel Ejiofor, Michael Fassbender, Brad Pitt, Benedict Cumberbatch, Paul Dano, Sarah Paulson, Paul Giamatti, Lupita Nyong'o, Garret Dillahunt, Taran Killam, Michael Kenneth Williams, Alfre Woodard, Chris Chalk, Dwight Henry, Scoot McNairy, Adepero Oduye, Ruth Negga, Marc Macaulay, Marcus Lyle Brown, Liza J. Bennett
Origine: USA, 2013
Distribuzione: BIM
Durata: 133’