18° TORINO FILM FESTIVAL – Intervista a Budd Boetticher

A cura di Giulia D’Agnolo Vallan

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GDV: “Seven Men From Now” e’ uno dei suoi western favoriti. Perché?
BOETTICHER: Credo che sia il migliore di quelli che ho realizzato con Randolph Scott. E’ un film che amo e l’ho appena visto per la prima volta in quarant’anni. Mi piacciono anche “Comanche Station”, “The Tall T” e “Ride Lonesome”…Ma mi sembra che in “Seven Men” Lee Marvin sia spettacolare. Fino ad allora Marvin non era nessuno. E poi in quel film abbiamo fatto cose che nessuno aveva fatto prima in un western, come per esempio rendere il cattivo attraente, piacevole. Se, alla fine, fosse stato Lee Marvin a uccidere Randolph Scott non credo che molti spettatori si sarebbero dispiaciuti.

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GDV: I suoi cattivi hanno sempre delle qualità attraenti…
BOETTICHER: Il loro problema è solo che si trovano dalla parte sbagliata dei binari. Ma sono tipi di bell’aspetto, hanno “vissuto” e vanno avanti a forza di espedienti. Secondo me erano veramente carini. Una giovane donna come lei probabilmente si sarebbe innamorata del cattivo e non di Randolph Scott.

GDV: Perché il film è rimasto invisibile per così tanti anni?
BOETTICHER: Michael Wayne, il figlio di John Wayne, aveva l’impressione che io e suo padre fossimo nemici mortali. E a volte lo eravamo davvero. Litigavamo continuamente. Spesso lui aveva torto e spesso io avevo torto. E, quando non ero d’accordo con lui, facevo ben attenzione a farglielo sapere – cosa non comune, perché nessuno era in disaccordo con John Wayne. “Duke” ha prodotto i due migliori film che ho mai fatto; ma del primo, “Bullfighter and the Lady”, ha tagliato quarantadue minuti. Come si può essere così stupidi? Non è stato un grande film fino a che non lo abbiamo rimontato esattamente come lo volevo io. E la ragione per cui lo volevo in quel modo era che lo avevo vissuto: “The Bullfighter and the Lady” era la mia vita: come si permetteva John Wayne di tagliarne un terzo! Il fatto è che, allora, ero solo Oscar Boetticher Jr., avevo al mio attivo 17 film e per di più non buoni. Ero giovane, praticamente un nessuno, e osavo dire di no a John Wayne? Così lui si è seccato e ha tagliato il film.

GDV: Perche’ non lo ha mai usato come attore?
BOETTICHER: Lui non avrebbe voluto mai che io lo dirigessi e io non mi sarei mai sognato di volerlo. John Wayne interpretava John Wayne meglio di nessuno altro al mondo. Ma faceva John Wayne. Politicamente, e in altri campi, c’erano molte cose su cui eravamo diversi. Ma amo John Wayne perche mi ha aiutato molto a raccogliere iI soldi per fare quei due film. Negli ultimi mesi mi è stato chiesto molte volte cosa cambierei della mia vita. Facile: sarei sato più gentile con John Wayne. Me non per questo sarei stato d’accordo con lui.

GDV: Quali erano la qualità di Randolph Scott che la fecero pensare di essere adatto al suo personaggio?
BOETTICHER: E’ stato Duke a volerlo. Quando gli abbiamo chiesto chi voleva nel film ha detto: “usiamo Randolph Scott, tanto è finito”. Credeva non fosse bravo. Invece si è rivelato un attore migliore di lui e, in più, ci ha permesso di creare nuove star, cosa che Wayne non ci avrebbe mai lasciato di fare. Abbiamo lanciato attori come Lee Marvin, Richard Boone, Parnell Roberts, Richard Stevens, James Coburn…. Per esempio, un giorno, sul set di “Ride Lonesome”, Randy mi ha chiesto chi fosse quel tipo magro con le mutande rosse. James Coburn gli risposi. E lui: “E’ bravo, scriviamogli qualche scena in piu’”. Grazie a quelle scene John Sturges lo ha scritturato per “The Magnificent Seven”. Randolph era molto generoso. Certo, poteva permetterselo, visto che era uno degli uomini più ricchi di Hollywood. Lui non aveva bisogno dei soldi perché era multimilionario per via del petrolio. In quei film, avevamo veramente un grande team: Randolph, Burt Kennedy e Harry Joe Brown…

GDV: Dopo “Seven Men From Now” i western successivi sono infatti stati prodotti dalla Ranown, la casa di produzione di Scott e Brown. Era una soluzione che le ha permesso più indipendenza dallo Studio?
BOETTICHER: Nessuno mi permetteva o non permetteva di fare niente. Non avevo bisogno di permessi, e alla Columbia sapevano che sarebbe stato un errore seccarmi. Non è ego, è la verità: non puoi lasciare che un mucchio di persone che non sanno cosa vogliono ti dicano cosa fare. E’ vero, non molti registi a quel tempo avevano la stessa libertà. Ma io ero un torero: aldilà del toro, non c’è granché che mi faccia paura. Devi essere molto forte per fare così. Ma io lo ero, lo sono e lo sarò sempre.

GDV: Che rapporto aveva con Harry Cohn il capo della Columbia?
BOETTICHER: Ottimo, era un vero amico. E a lui non piaceva nessuno. La gente era terrorizzata alla sola idea di entrare nell’ufficio di Harry Cohn. Sembrava Mussolini ed era persino peggio di lui. Ma tra me e lui andava così: “Bud questo è un pezzo di merda e non lo voglio fare”. Oppure: “Bud, è bellissimo, vai avanti”. Non mi avrebbe mai detto che doveva parlare con dieci altre persone prima di darmi una risposta. Era più potente di Jack Warner e degli altri capi dello Studio del tempo. Ma nei miei confronti è sempre stato molto leale.

GDV: Ha detto che Burt Kennedy è il suo sceneggiatore preferito. Come lavoravate insieme?
BOETTICHER: Burt è stato il mio migliore amico per quarantaquattro anni. Era un autore di western assolutamente brillante, forse il migliore. Quando ero in Messico a girare “Arruza”, e ci sono rimasto per sette anni, Burt mi ha chiamato per un consiglio: gli avevano chiesto di diventare regista. “Basta che dirigi i tuoi script e non cambi una parola” gli ho risposto. Normalmente, quando lavoravamo ad un progetto insieme, Burt scriveva una bellissima sceneggiatura. A quel punto, sceglievamo un cast che corrispondesse ai personaggi della storia e, una volta trovatolo, si riscriveva la sceneggiatura per adattarla agli attori che avevamo scelto. Per esempio, in “Bullfighter and the Lady” non ci sarebbe mai stata una scena di tiro al bersaglio se Robert Stack non fosse stato un campione. Se un attore è un grande sciatore, lo fai sciare. E se nel film c’è un cowboy e l’attore non sa cavalcare, lo circondi dei migliori cowboy del mondo che gli accendono la sigaretta, gli offrono da sedersi e ascoltano rapiti tutto quello che dice. Così dai dignità al personaggio: se gli altri, che sono così bravi in groppa ad un cavallo, lo rispettano tanto, deve proprio essere un mago. Ho fatto così con Scott Brady e John Lunden in “Bronco Buster”. Nessuno dei due poteva cavalcare e così ho scritturato cinque campioni di rodeo che hanno interpretato se stessi nel film e hanno fatto sembrare meglio anche gli altri.

GDV: I suoi western hanno una sorta di struttura ricorrente: c’è un eroe, quasi sempre in transito, che ha perso la moglie ed è impegnato in una sorta di vendetta. Cosa la affascina di quel tema?
BOETTICHER: Esattamente quel che manca nel cinema di oggi, che ha perso la capacità di fare dei film sulle persone. Chi se ne frega di un edificio che salta in aria e di una nave che affonda? Ti importa dei personaggi: se ti piace il protagonista, se ti fa paura, se ridi quando ride e piangi quando muore….allora il film ti prende. I miei film film erano film su delle persone.

GDV: Lei è nato in Illinois. Cosa l’affascinava del West? </b>
BOETTICHER: Sono nato a Chicago ma ci sono stato praticamente cinque giorni. Io mi ritengo dell’Indiana. I western sono stati la prima cosa che mi hanno dato da fare quando ho iniziato a facer cinema. Non sapevo nulla del West. Quando hai dei cubani che vengono qui a giocare a baseball e ne sanno più degli americani è perché hanno dovuto studiarlo. Stessa cosa con me. Avevo deciso che non sarei mai stato nelle condizioni di chiedere a qualcuno che mi stava vicino cosa dovevo fare. E’ per quello che sono diventato una specie di autorità sul West. Ne ho studiato a fondo la storia, ho cercato dei dettagli. Per esempio, in “Seven Men from Now” è una delle prima volte che si vede un pistolero fare pratica. La mia idea era che se uno faceva il cowboy, a quei tempi, doveva allenarsi a tenere il cavallo con una mano e ad usare l’altra per urinare, se voleva essere il migliore con la pistola doveva esercitarsi.

GDV: Un altro personaggio importantissimo tra I suoi collaboratori è Lucien Ballard…
BOETTICHER: Se un regista e un operatore non sono innamorati l’uno dell’altro non si ottiene un buon film. Ballard era come Kennedy, uno dei miei migliori amici. Era semplicemente uno dei migliori operatori del mondo, anzi il migliore. E’ per quello che ho sempre lavorato con lui. Ed era bellissimo, uno degli uomini più attraenti che abbia mai visto, oltre che un gran donnaiolo. Ogni volta finiva con la ragazza più carina del paese. Quando giravamo, in genere ero io a scegliere l’inquadratura. Ma eravamo così vicini che, se chiedevo – perché non usiamo un obbiettivo 35mm per tenere in campo quei tre personaggi? – e lui mi diceva che stavamo perdendo luce e suggeriva invece di stringere e illuminare artificialmente la scena, gli credevo. Se poteva, Lucien migliorava quello che avevo previsto. La nostra era una meravigliosa collaborazione. Ho sempre pensato alla fotografia come ad una cosa fondamentale perché i film arrivino ad essere come degli oggetti d’arte. Quando, durante la guerra, lavoravo a Washington per il presidente Truman, alla fine della giornata andavo al museo a vedere gli Impressionisti. Credo che mi abbiano influenzato parecchio…Renoir. Tolouse-Lutrec, Gaughin. Certe volte non so da chi ho rubato ma so che l’spirazione viene da loro. E la gente crede che io possa parlare solo di tori, corse di cavalli e football…… Invece gli Impressionisti francesi sono una mia passione. E non mi piaceva solo come dipingevano: mi piaceva come vivevano, come facevano le cose. Erano degli spiantati –Toulous-Lutrec pagava da mangiare a tutti gli altri. Erano affascinanti e folli.

GDV: Nella composizione delle sue immagini anche la scelta dei set è molto particolare. Tra le altre cose, lei non ha mai girato un western a Monument Valley…
BOETTICHER: I western con Scott sono tutti ambientati a Long Pine, in California. Sono chilometri e chilometri di roccia vulcanica che è emersa, nel corso di milioni di anni, a forza di terremoti e tempeste dando origine a forme bellissime. In più, I paesaggi sono così belli perché, prima di girare, ero stato a cavallo per settimane a battere la zona. Ne conoscevo ogni sasso, ogni ruscello, ogni laghetto. Una delle storie che mi piace raccontare riguarda le riprese di “Ride Lonesome”. In apertura del film volevo vedere Randolph Scott piccolissimo, a cavallo, che da lontano si avvicinava progressivamente. Con Lucien Ballard avevamo scelto il posto dall’aereopano e io l’avevo già esplorato a cavallo. Quando ci siamo andati per discutere le riprese, ho preso il viewfinder e ho scelto dove mettere la macchina da presa: “Lucien, domattina alle sette e mezza la macchina è qui, con un obbiettivo 35mm”. A quel punto, Lucien ha camminato una ventina di passi, fino a dove c’era un chiodo piantato nel terreno, e mi ha detto: “Io e Walsh abbiamo girato quest’inquadratura quindici anni fa. Vuoi l’inquadratura di Walsh o quella di Boetticher?” E io: “La mia naturalmente”. Ma era sostanzialmente la stessa. Le cose non cambiano mai….Ma Monument Valley….Monument Valley era casa di John Ford. E io non avevo nessuna intenzione di copiare le sue inquadrature. Che fosse lui a copiare le mie.

GDV: Tra I registi western che lei ha detto di amare di più ci sono Anthony Mann e Howard Hawks…
BOETTICHER: Si, loro due e Ford erano grandi registi. Erano anche grandi persone. Perché, attenzione, io non vado al cinema per guardare quello che fanno gli altri. Io faccio le mie cose: sono un torero e, per ogni torero, non esiste un altro torero al mondo. Allo stesso modo, mi ritengo il migliore regista sulla piazza.

GDV: Quanti giorni di riprese e che budget medio avevano I suoi western?
BOETTICHER: Il budget era tra i cinque e i settecentomila dollari. Roba da ridere oggi. I giorni di lavorazione erano diciotto. La durata media di ognuno dei western era di un’ora e diciassette minuti. Perché erano film che avevano un inizio, une metà e una fine. Adesso sono noiosi, non finiscono più. Persino un grandissimo regista come George Stevens, quando ha fatto “The Giant”, si è trovato con in mano un film di più di quattro ore. Così poi ha dovuto impiegare sei mesi per tagliarne due. Quando io finivo un film con Scott, lo guardavo in tre o quattro giorni e poi partivo per l’Europa. Se il film era di un’ora e diciassette minuti, ne avevo probabilmente girati un’ora e venti. Un po’ di gente che entrava o usciva dalle porte si poteva sempre eliminare all’ultimo momento. Invece oggi… Prendiamo per esempio “Dances With Wolves”: se vedevo un altro indiano mi veniva da vomitare.

GDV: Proprio perché sono così compatti, essenziali, Paul Schrader, in un saggio recentemente apparso su “Film Comment”, ha scritto che i suoi western hanno una qualità “rappresentativa”, ritualistica. E’ d’accordo?
BOETTICHER: Sono d’accordo con molte delle cose che Schrader dice di me e non sono d’accordo con molte altre. Per esempio che i miei western abbiano in qualche modo a che fare con la corrida o con il torero. Il circo degli indiani come l’arena…quelle sono scemenze. Randolph Scott all’inizio di “Comanche Station” circondato dagli indiani non è un matador, è un cowboy nei pasticci. E’ come quando vado in Francia, dove è pieno di meravigliosi ragazzini che amano i miei film e che mi spiegano quello che stavo cercando di dire. Per alcuni l’albero di “Ride Lonesome”, che Randolph Scott brucia alla fine, esemplifica una croce e quindi la religione. Non è assolutamente vero: era l’albero a cui avevano impiccato sua moglie e lui voleva eliminarlo dalla faccia della terra.

GDV: In conferenza stampa ieri lei ha detto che I suoi western erano in anticipo rispetto al loro tempo…
BOETTICHER: La gente mi chiede perché I miei film sono così diversi dagli altri western. E’ perchè tutte le cose che si vedono nei miei western si vedono perché le faccio, le so fare, o so che sono possibili. Sono cose che ho sperimentato personalmente, che ho vissuto. Conosco I cavalli, so come combattere….

GDV: Ieri ha anche citato Clint Eastwood… Riconosce, nei western di Eastwood alcune affinità tematiche? Il cavaliere che arriva da lontano, il senso del passato, la vendetta…
BOETTICHER: Clint Eastwood mi piace molto, è una persona straordinaria. Nei suoi western ci sono certi temi che appaiono nei miei ma niente altro. Quando Clint Eastwood cammina, e dico cammina, per mettere la dinamite in “Two Mules for Sister Sara”, ero seduto al cinema vicino a lui e gli ho detto: “figlio di puttana, non piazzi della dinamite camminando. Corri, la afferri, la getti il più lontano possibile e poi te la dai a gambe. Non cammini perché tanto sei la star e sai che non puoi morire”. Come dicevo, Eastwood è una grande persona ma quello è un film orribile, orribile. Non c’è una parola di quello che avevo scritto nella sceneggiatura. Il protagonista, nel mio film, era un vagabondo, mezzo delinquente. Non si era rasato da settimane, beveva troppo: dopo che aveva perso sua moglie ed era diventato uno sbandato. Fino a che non incontra Sister Sara e vuole andare a letto con lei. Solo che lei è una suora. Era una storia d’amore, la storia di due persone separate da Dio. E, nella mia sceneggiatura, non si scopriva fino all’ultimo minuto che Sara non era una suora. “Non sapevi che ti volevo fin dal primo momento?” , le diceva lui alla fine. E lei: “ Non sapevi che ti volevo altrettanto anch’io?”. Non era una commedia!
Ma un giorno troverò qualcuno che lo dirige come volevo veramente io. Tra l’altro, nella mia versione, Sara non era nemmeno una prostituta: era una cortigiana che era andata a letto con entrambi i capi della rivoluzione che stava per scoppiare.

GDV: Perche’ non lo ha diretto allora?
BOETTICHER: Ero in Messico a fare “Arruza”. Stessa cosa anche per “Ride the High Country”, il primo film di Sam Peckinpah. Ero io che dovevo dirigerlo solo che mi sono rifiutato di tornare.

GDV: Cosa pensava di Peckinpah?
BOETTICHER: Mi piaceva il suo lavoro ma lo trovavo detestabile. “The Wild Bunch” era un grande film ma poi ne ha fatto uno che parlava di donne di cui non sapeva niente, quello con Stella Stevens… Il suo problema era che non era una bella persona. Hanno scritto che ha rubato tutto da me. Non è vero. Ma lui lo ha letto e, da allora, mi ha odiato. L’ultima volta che ci siamo visti mi ha detto “Budd tu e tutti gli altri dite che faccio film violenti perché mi piace la violenza. Invece io li faccio per mostrare al mondo quanto è orribile”. “Cazzate Sam” gli ho risposto. E’ l’ultima cosa che ci siamo detti. I suoi erano film bellisismi, ma quando giro uno che muore, non mi va di vedere il suo naso che vola via in aria.GDV: Stavo riguardando “Buchanan Rides Again”. E’ quasi una commedia…
BOETTICHER: Si’ e’ un western insolito. E ha uno dei miei finali migliori. Un finale che, come altri, ci siamo inventati al momento della ripresa. Spesso nei miei western si sente “ahuuuuuu!” “Coyotes?” dice qualcuno. “No sono gli indiani che seppelliscono i nemici”. Perché nei western nessuno tiene conto del fatto che, quando c’è uno scontro, ci sono dei morti che presto cominceranno a puzzare. E tu cosa fai, una scena d’amore con dei cadaveri in decomposizione? Io ho sempre qualcuno che li toglie di mezzo. Così, alla fine di Buchanan, ho dato l’ultima battuta al nuovo sceriffo che sta vicino ai due fratelli morti sul ponte: “Datevi da fare, prendete una badile!”. Non se lo aspettava nessuno! Come in “The Tall T” dopo che sono successe tutte quelle cose orrende, dopo che ci sono stati morti da tutte le parti, Randy dice a Maureen O’Sullivan: “Vieni sarà una bella giornata”. E’ così impensabile! Quando io e Burt lavoravamo insieme, giravamo il suo script ma, durante le riprese, improvvisavamo continuamente delle cose a seconda delle circostanze. I cinque western che Kennedy ha scritto sono bellisimi. Due degli altri che ho realizzato con Scott mi piacciono di meno. “Westbound”, infatti, è proprio tremendo. Era il quarto della serie, una sceneggiatura già scritta che Randolph Scott doveva alla Warner Brothers. Sapevo che, nelle loro mani, il mio leading man sarebbe diventato un nessuno, “finito”, come aveva detto John Wayne. Quindi accettai di dirigerlo per il suo bene. Non avevano praticamente i soldi per pagarmi e non lessi nemmeno il copione. Facemmo dei cambiamenti per miglioralo mentre lo stavamo girando, per renderlo se non un buon film almeno un film decente. Infatti, un buon venticinque per cento di quello che è finito sullo schermo non è mai stato scritto. Anche “Decision at Sundown” era una sceneggiatura che Randy si era impegnato ad interpretare e mi piace meno degli altri.

GDV: Ma la storia di Randolph Scott che si vendica e sbaglia perché non riesce ad accettare chi era veramente sua moglie è molto bella!
BOETTICHER: Quella parte piace anche a me, però non mi andava giù Randy ubriaco in un bar. Quello non era Randolph Scott! Ma ho fatto il film perché avevo accettato dall’inizio e Harry Joe Brown non aveva ancora capito che il boss ero io. Era solo il secondo della serie.

GDV: Dopo l’esperienza di “Arruza”, sette anni in Messico, è tornato negli Stati Uniti ma, da allora, ha diretto un solo lungometraggio, “A Time for Dying”…
BOETTICHER: Quando sono tornato dal Messico, e ho incontrato mia moglie, mi mandavano delle sceneggiature tali che le promettevo le avrei realizzate se lei fosse riuscita ad arrivare fino in fondo. Non ce l’ha mai fatta. Era roba orribile.
I film non li fai per i soldi. Io e Mary, nei trent’anni che siamo stati insieme, abbiamo attraversato dei periodi in cui eravamo senza il becco d’un quattrino. Tutto perché io non volevo dirigere delle schifezze. Così, ad un certo punto, hanno smesso di chiamarmi.
E io ho deciso che l’unica cosa da fare era scrivere le mie sceneggiature. Basta però con la regia. Abbiamo una vita troppo bella…Tanto, visto che i diritti sono miei, non permetterò a nessuno che non sia bravo di dirigerle. E, ovviamente, uno non è bravo se non è d’accordo con me.
Adesso mia moglie ed io abbiamo pronte quattro sceneggiature, tra cui il vero “Two Mules”, e tre libri. Una sceneggiatura è tratta dal mio libro “When in Disgrace” ed è lunga 2943 pagine, tre volte più di “Gone With the Wind”. Non la dirigerò io, ma credo che potrebbe farlo Curtis Hanson. Starà a lui tagliare quello che non gli sembra necessario. E’ la storia dei miei sette anni in Messico: sette giorni e sette notti nella prigione più dura del mondo, un periodo in manicomio, in stato di incoscienza così che non sapevo dov’ero…Successe quando stavano cercando di rapirmi per riportarmi a casa a dirigere “Comancheros”… Mi sono svegliato in manicomio con una barba di cinque giorni e i buchi delle siringhe di narcotico in una gamba. Tutti sono stati uccisi e sono morti, persino Arruza. Sarà un film con tre grandi protagoniste donne e, alla fine, con la donna della mia vita, Mary. E’ una grande storia. E Hanson farebbe un ottimo lavoro.

(intervista tratta dal catalogo del Torino Film Festival 2000, per gentile concessione di Giulia D’Agnolo Vallan e Steve Della Casa)

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