1981: Indagine a New York, di J. C. Chandor

Lo sguardo di Chandor si conferma prezioso setaccio per ogni superflua estetizzazione, lasciando il campo allo stretto essenziale: i movimenti e le emozioni dei suoi personaggi. Un notevole noir.

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Money, we make it,
fore we see it you take it,
oh, make you wanna holler.
The way they do my life,
make me wanna holler.
The way they do my life,
this ain’t livin’, This ain’t livin’
No, no baby, this ain’t livin’
No, no, no…”
Marvin Gaye, Inner City Blues, in apertura di film.

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All is Lost? È ancora questa la domanda centrale nel cinema di J. C. Chandor. Sin dall’esordio con Margin Call, passando per l’abissale esperienza di perdita dell’icona-Redford, arrivando ora a questo bel noir metropolitano filmato come una scheggia di cinema venuta proprio dal 1981…l’esigenza rimane sempre una: sopravvivere. Alla crisi, all’oceano o alla violenza. E nel frattempo far sopravvivere un certo umore del cinema che pian piano si sta confondendo con altre immagini, altri oceani, altri sguardi sul mondo. A most violent year (bellissimo titolo originale che fa riferimento a uno degli anni statisticamente più violenti per New York, il 1981, appunto) è un film che reclama il suo tempo, cogliendo in divenire la vita di un piccolo imprenditore di carburanti figlio di immigrati che vuole avere la sua chance nella città-del-sogno. Abel Morales rischia sempre tutto in spericolati affari, vuole fare tanti soldi e subito per rendere felice sua moglie, vuole vestire bene e legittimarsi senza mai sporcarsi le mani. Restare onesto. Ma si scontra inevitabilmente con un passato che lo risucchia, con un melting pot che crea tensioni endemiche e violente, con una città-calderone che impone tragiche scelte sempre ai limiti della legalità. “Mister American Dream” come lo chiama la moglie/dark lady (una magnetica e magnifica Jessica Chastain) lotta da un’intera vita per “non essere un gangster”, per non avere debiti con la giustizia e sentirsi un buon “americano“, ma la giungla d’asfalto newyorkese lo risucchia e lo costringe a reagire. E allora Abel – un Oscar Isaac a dire il vero non del tutto convincente, che a tratti pecca di carisma nel disegnare questo lacerato self made man – si ritrova accerchiato dalla legge (le pesanti inchieste su corruzione e evasione fiscale che non riesce proprio a spiegarsi), dalla strada (gli agguati e le rapine ai suoi camion che creano terrore e morte nei suoi dipendenti) e dalla sua stessa famiglia (la gestione finanziaria dell’impresa a carico della moglie è davvero così limpida come sembra?).

a mostLo sguardo rigoroso di Chandor, pertanto, si conferma un prezioso setaccio per ogni superflua estetizzazione lasciando il campo solo allo stretto essenziale: i movimenti e le emozioni dei suoi attori; gli alti e i bassi delle loro relazioni. A contare sono sempre e solo i personaggi che prima scrive (ricordiamo che è anche sceneggiatore di tutti e tre i suoi film) e poi ha l’ambizione di far “ri-vivere” ancora oggi in inquadrature sempre ad altezza d’uomo. Ogni film diventa una loro emanazione, si adegua al tempo della loro vita, pedinata con sensibilità molto seventies nel concepire questi viaggi dell’anti-eroe. Qui siamo di fronte alla paziente costruzione di un mondo popolato da una miriade di caratteri credibili e a tutto tondo, i cui dilemmi morali vibrano di passione in ogni inquadratura. E allora vengono in mente i coetanei James Gray, Scott Cooper o Tom McCarthy: giovani cineasti sicuramente diversi tra loro, ma che fanno riecheggiare in maniera simile intere stagioni di cinema americano senza l’ombra di compiaciuti citazionismi (alla O.Russell) e senza l’ossessione di sterili gabbie formali (alla Iñárritu). Certo qui si rimane lontani dal dirompente e livido lirismo di The Yards: in questo 1981 si ha costantemente l’impressione di una certa incompiutezza, si sentono gli echi di una travagliata produzione, di sicuro si fa fatica a sondare sino in fondo gli abissi che il film intende aprire (e che Chandor aveva ampiamente aperto nel film precedente).

A most violent yearQualche piccolo dubbio resta. Il fatto, però, è che ci rimane addosso un’esperienza filmica comunque totalizzante, simile per certi aspetti all’altro classico settantesco di questa stagione: Spotlight. L’incidente notturno col cervo, fulmineo e destabilizzante, è indice di un cinema che vuole aprirsi al contingente svelandosi in una singola sequenza apparentemente slegata dal tutto. Una sequenza che ci fa tornare per pochi istanti ai lunghi adiii altmaniani o ai rolling thunder schraderiani: Chandor ha precisi referenti di tono noir ma non li fa mai pesare. E in fondo basta veramente poco per schiudere le porte di una memoria condivisa: basta il fantasma di uno skyline che ci fa intravedere per ben due volte le Twin Towers sfocate, inquadrate in profondità di campo come ricordo vivo-e-inafferrabile, come cicatrice ancora aperta di una città (e di un modo di guardarla) che incombe e preme sul singolo destino di Abel. Ecco: quel che resta è un sincero sguardo sugli esseri umani, una sincera empatia in ogni singola scelta, in un cinema mai passatista proprio perché straordinariamente consapevole di un passato. J. C. Chandor, senza troppa enfasi o presunzione, ci sta ancora dicendo che non tutto è perduto.

 

Titolo originale: A Most Violent Year
Regia: J. C. Chandor
Interpreti: Oscar Isaac, Jessica Chastain, David Oyelowo, Alessandro Nivola, Albert Brooks
Distribuzione: Movies Inspired
Durata: 125′
Origine: Usa 2014

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