1991, allarme a Hollywood! (buon viaggio David Lynch)
Salutiamo il nostro secondo padre, o forse fratello maggiore, David Lynch, artista magnificamente oltre il cinema, verso la luce. Lo ricordiamo parlando del nostro libro di 34 anni fa…

Salutiamo il nostro secondo padre, o forse fratello maggiore, David Lynch, artista magnificamente oltre il cinema, verso la luce. Lo ricordiamo parlando del nostro libro di 34 anni fa, monografia d’assalto e avventurosa. Piccole storie biografiche che s’intrecciano nei percorsi di vita e di scrittura…E un primo capitolo per la prima volta online.
E’ una Sentieri selvaggi delle origini quella che, dopo neanche tre anni di vita, dà alla luce la prima monografia al mondo su David Lynch. Prima pubblicazione “vera”, con un editore – seppure un amico – con un distributore per le librerie (che scappò con i soldi come in un film americano!), 6.000 copie stampate che sparirono nell’onda del successo televisivo mondiale di Twin Peaks.
Rileggendo oggi questo primo saggio, che pubblichiamo per la prima volta sul nostro sito dopo 34 anni, si nota tutta la meravigliosa ingenuità e lucidità di quegli anni. Il desiderio di affermare uno stile, un discorso, uno sguardo, una traccia, un sentiero selvaggio possibile. E il coraggio e la sfacciataggine di produrre una monografia “orizzontale”, per dare luce e aria alle immagini del cinema. Quasi immaginando un mondo dove le letture sarebbero presto state differenti, magari su schermi del computer, come avverrà di lì a poco con l’esplosione della rete internet e del Word Wide Web.
Non un volume d’autore, perché fare un libro era, per noi, come fare cinema. E quindi l’autore era un po’ il regista di questa operazione culturale che non si vergognava minimamente di mettere in scena nell’ultima pagina i credits del libro, proprio come fosse un film. Ma non un film “classico”, perché i testi scorrevano paralleli, sorta di doppio sguardo dove alla riflessione si affiancavano materiali e testi brevi, racconti e dichiarazioni rubate qua e là, chissà dove in un’epoca in cui non c’era la rete e trovare documenti e immagini era un’impresa difficilissima.
Tutti guardavano e parlavano di Twin Peaks, improvvisamente cambiarono i “registri della visione “televisiva”, e noi ci esaltavamo per un successo che in qualche modo, meraviglie della gioventù, sentivamo che ci appartenesse.
Questo cineasta che non era un cineasta, questo cinema che non era cinema e neppure televisione rappresentava tutto quello che amavamo e ci emozionava delle immagini in movimento. L’illusione di un sentimento, lo strappo visivo che lacerava i nostri corpi, la dolcezza infinita delle musiche di Badalamenti che avvolgevano quelle immagini come dentro una fiaba dell’infanzia, un gioco di specchi, di perversioni, di realtà aumentata, insomma: Lynch ci offriva in un attimo un nuovo mondo, quasi fosse l’anticipazione di un futuro possibile, dove l’arte scorreva libera e selvaggia dentro le nostre vene e nei nostri corpi di giovani trentenni.
Cosa ha rappresentato Lynch nei 30 anni successivi è sotto gli occhi di tutti. Mai più neanche lontanamente mainstream, sempre più libero, originale, folle, unico. Fino a ritornare nel “luogo del delitto” con quell’incredibile viaggio nel mondo dei sensi che era Twin Peaks – Il ritorno.
David Lynch ha rappresentato per Sentieri selvaggi un vero secondo padre, dopo John Ford. Forse più un fratello maggiore che un padre, l’unico che avrebbe potuto interpretarlo con l’ironia e la leggerezza che lo rappresentava (come fece in The Fabelmans di Steven Spielberg).
Buona lettura del 1991, siate clementi, ogni tempo ha il suo stile e i suoi sogni….
dal volume DAVID LYNCH – Film, visioni e incubi da Six Figures a Twin Peaks (Stefano Sorbini Editore, 1991)
La piccola bottega degli orrori
La provincia americana secondo David Lynch
Che il cinema sia ormai diventato un momento praticamente d’elite dell’apparato industriale delle comunicazioni di massa lo dimostra con inusitata evidenza (se ce ne fosse ancora bisogno) il ‘caso’ David Lynch: perfetto sconosciuto alla maggioranza degli americani fino allo scorso anno (e degli italiani sino al gennaio ’91), ed ora volto emergente e ‘forte’ della costruzione di ‘fiction’ americana. Il cambiamento ha un nome ben preciso: Twin Peaks. Anche qui in Italia: chiedete in giro chi conosca Kevin Kostner e il suo pluripremiato Balla coi lupi; fuori dalla (ristretta) cerchia degli appassionati di cinema persino un ‘multioscar’ fatica ad emergere. Ma se parliamo di Twin Peaks chiunque, anche senza averne visto neanche una puntata, sa di che si tratta. Potenza della televisione. Ormai vero luogo di diffusione dell’immaginario mondiale. Una volta (nella preistoria dell’era delle comunicazioni di massa) questo ruolo spettava al cinema, ma ora è delegato a ‘trame’ per iniziati, luogo di sperimentazioni per immaginari d’avanguardia (o quasi), quasi area per ‘addetti ai lavori’.
E così David Lynch può anche vincere una Palma d’Oro a Cannes (Cuore selvaggio), ricevere candidature all’Oscar (Elephant Man), lavorare ad una superproduzione di un kolossal (Dune): comunque rimane oggetto di culto per cinefili ed appassionati (e neanche tutti, è nota infatti l’avversione della critica ‘ufficiale’ per Lynch).
Poi accade che uno dei network americani, messo in crisi dal dilagare delle TV via cavo e dal fenomeno dell’home video,lo chiami a dirigere un ‘serial’ (in compagnia di quel Mark Frost già autore di Hill Street giorno e notte, che rende Lynch, per così dire, presentabile”) con l’intento di fare della TV ‘eccentrica’ che attiri un nuovo pubblico. Ed ecco le prime pagine dei settimanali e mensili patinati che gli danno la caccia, lo ritraggono ora con la sua ‘ex’ Isabella Rossellini, ora con qualche componente del cast di Twin Peaks, ne indagano abitudini e vicende personali, da quelle sentimentali al suo modo di vestire (“veste con un rigore quasi funerario, vive in una casa vuota con solo uno stereo pro-gettata dal figlio del grande architetto F.L.Wright”, e altre informazioni del genere): insomma TV e carta stampata ne fanno un personaggio pubblico.
“I MIEI FILM NON SONO MAI UN COMMENTO SULL’AMERICA”
La prima cosa che salta agli occhi alla visione di un film di Lynch è quella sorta di ‘atemporalità’ che lo contraddistingue: o meglio una temporalità doppia, una esterna – gli anni Ottanta – ed una interna – gli anni Cinquanta.
Lynch è cresciuto nell’America degli anni Cinquanta, e quest’immagine della provincia americana dell’epoca, dell’espansione della cosiddetta middle-class, con quelle villette monofamiliari, i giardini in ordine, i fiori, le staccionate di legno bianco, tutto ciò fa parte del suo background. L’infanzia ovattata tipica della famiglia americana media degli anni Cinquanta è quella che ha vissuto Lynch, quella che gli ha poi permesso tranquilli studi d’arte, ma anche quella che riempie il suo immaginario di incubi. In un bellissimo film di qualche anno fa (mai uscito in Italia e visto solo nei festival, ma c’è da sperare che si recuperi in video o in televisione), Parents dell’americano Bob Balabam, si proponeva una lettura davvero inedita ed interessante di quel periodo. Il film era visto dal punto di vista di un bambino che cresceva in una di quelle famiglie di allora. Il problema nasceva dalla difficoltà del ragazzo di adattarsi all’ambiente, con il rifiuto ‘incomprensibile’ di mangiare la bella e ‘colorata’ carne di cui si ciba allegramente la sua famiglia. Col tempo il ragazzo scopre il motivo di questa sua avversione: la carne di cui si cibano i genitori è ‘carne umana’. Il film sottopone gli anni Cinquanta ad una lettura senza scampo: la felicità apparente dell’America dell’epoca nascondeva il cannibalismo sociale su cui essa stessa si formava. Società dimezzata dove metà sono ricchi e metà ai limiti della sopravvivenza (e guarda caso sono proprio il 50% gli americani che votano alle elezioni…), famiglie apparentemente libere ma nel profondo dei veri e propri lager dell’infanzia. Casalinghe imprigionate tra le mura di casa rilanciano con gli elettrodomestici la loro funzione di organizzatrici del consumo familiare, i giovani diventano ‘ribelli senza causa’, si scontrano in bande e solo così divengono ‘visibili’, diventando cioè un problema sociale.
Tutto questo panorama dell’epoca della guerra fredda è interiorizzato da Lynch e riproposto quasi inconsciamente nei suoi film. Velluto blu, Cuore selvaggio e Twin Peaks sono permeati fino al midollo degli anni Cinquanta. L’ambientazione è solo apparentemente di ‘oggi’: l’humus è ancorato ad oltre trent’anni fa, il carattere dei personaggi, i colori, i dialoghi, le villette, i giovani arrabbiati in giubbetto di pelle, ecc… appartengono ad un immaginario di una sorta di ‘infanzia dell’America’, almeno per come l’ha vissuta Lynch, luogo comune dell’innocenza perduta. E’ da lì che vengono fuori i mostri che popolano i nostri incubi, sembra voler dire Lynch. E’ da lì che viene il mondo in cui viviamo oggi.
“ERASERHEAD E’ COSI’ PROFONDO CHE NON LO CAPISCO”
“NON CREDO CHE L’ARTE DEBBA AVERE UN SENSO, VISTO CHE NEPPURE LA VITA CE L’HA”
Si possono cercare diverse influenze nelle opere di David Lynch. C’è chi ha parlato di Hitchcock ad esempio. Se interrogato,il regista preferisce parlare di pittura, magari di Bacon e Hopper, o di astrologia (su Fellini: “Entrambi siamo nati il 20 gennaio, questo forse significa qualcosa“), insomma non è un regista-cinefilo (alla Brian De Palma o alla Steven Spielberg). Se proprio vogliamo dare dei ‘padri’ al suo cinema li dobbiamo ‘inventare’, non ce ne sono di riconosciuti. E allora dobbiamo per forza ritornare agli anni Cinquanta. Ai fiammeggianti melodrammi di un Douglas Sirk o di un Vincente Minnelli, oppure alle atmosfere (per l’epoca) piccanti di film-manifesto come Scandalo al sole di Delmer Daves (primo sintomo vitale dei movimenti di liberazione sessuale degli anni Sessanta). Di Hitchcock c’è senz’altro l’amore per il mistero, l’apparenza ingannevole delle cose (“Mi piace andare oltre la superficie delle cose per scoprire quello che c’è dietro la gente”, afferma). Cineasta delle emozioni, le trame, le costruzioni di Lynch sono delle vere e proprie infernali macchine del desiderio, macchine esse stesse produttrici e desideranti, capaci in maniera inimitabile di liberare le emozioni dello spettatore (provate a pensare a Twin Peaks realizzato da qualcun altro e ne verrà fuori, pur con gli stessi personaggi e ambientazione, una noiosa soap-opera da gioco degli intrighi familiari come tante altre che riempiono i nostri schermi).
La sua ‘straordinarietà’ risiede in quella che è stata chiamata “mancanza di inibizione filmica”, che gli permette di filmare l'”infilmabile”, di avere uno sguardo ‘strabico’ sul reale, unico, di guardare cioè la realtà della vita quotidiana con gli occhi di un ‘mutante’.
In questo suo punto di vista originale Lynch sembra dubitare fortemente delle convenzioni sulle quali è fondato il rapporto tra testo e autore, e riesce a mettere in pratica nelle sue trame incredibili quell’approccio ‘ironico’ al testo che il semiologo francese Roland Barthes chiamava ‘morte dell’autore’. Ed infatti Lynch non è un ‘autore’, non nel senso classico del termine; nei suoi film non sembra esserci una coerenza ‘logica’, tematica. Il suo approccio sembra quello di uno scienziato (per il rigore) che agisce però d’istinto. Insomma Lynch è una macchina d’emozioni. Cinematografica.
I suoi film sono terribilmente fisici, quasi ossessionati dai cinque (sei) ‘sensi’ dell’uomo. Proprio per questo sono irraccontabili: presentano sì storie, ma sono talmente pieni di odori, sapori (si pensi solo ai dolci e ai caffè di Twin Peaks), umori, sguardi obliqui e visioni da incubo, quasi paranormali, da essere un’esperienza sensoriale completa.
Tre sono poi le coordinate attraverso le quali sembrano muoversi tutti i suoi film: il dettaglio, i confini e il doppio. Del dettaglio ne ha fatto quasi un marchio di riconoscimento, vera cifra stilistica individuabile oltre le storie-trame-costruzioni: i pettirossi di Velluto blu, la goccia che cade in Dune, le vampate di fuoco in Cuore selvaggio, la cenere che cade in Twin Peaks (per non parlare del riflesso della moto nel dettaglio dell’occhio di Laura Palmer nel videotape dell’episodio pilota). Il confine è invece il ‘margine’ estremo dove a Lynch piace indagare: il limite tra reale e immaginario, tra bene e male, tra commedia e mélo, tra riso e pianto, e non a caso Twin Peaks è ambientato ai confini con il Canada, Cuore selvaggio attraversa nel suo viaggio on the road diversi confini, mentre in The Elephant Man ed Eraserhead il confine è quello più astratto tra l’uomo e il mostro (e la diversità). Quanto al doppio è un tema immancabile in un cinema dell’ambiguità come il suo: dovunque è l’incontro/scontro con l’altra metà di noi stessi, il nostro lato oscuro messo finalmente in luce, così il protagonista di Dune si scontra con il se stesso inconscio che è il salvatore della mitologia popolare, e se pensiamo a Twin Peaks è tutto un mondo popolato di doppi (dalla cugina gemella di Laura Palmer, a Leland Palmer/Bob, alle cime gemelle del titolo), sin dalla prima inquadratura di Jocelyin Packard ripresa allo specchio, immediato segnale di un mondo ‘altro’ di difficile decifrazione.
“QUELLO DI BLUE VELVET E UN ORRORE CHE ESISTE NELLA NATURA UMANA”
La perversione umana, l’oscurità, l’orrore, ma anche il rock, il mélo, la pop-art, la fiaba (vedi Il mago di Oz in Cuore selvaggio) sono solo alcune delle continue suggestioni extratestuali che Lynch ci invia dai suoi film. A volte sembra quasi disinteressarsi della trama, attratto magari da un dettaglio apparentemente ai margini ma che lui poi sa ‘centralizzare’ e rendere momento magico. Pensiamo all’incidente di Cuore selvaggio, con Sherilyn Fenn che vaga sanguinante e morente nella notte tra le macerie delle macchine alla ricerca disperata del suo portafogli, con Sailor e Lula attoniti che non possono far niente se non ‘vederla morire’: Lynch a volte perderà anche il filo delle sue trame per appassionarsi ai dettagli, ma nei suoi film ci sono ‘momenti’ davvero unici, sentieri imperscrutabili dell’angoscia come del piacere, visioni che scuotono l’interno dei corpi (e l’esterno) e li trascinano oltre i confini del visibile. La visione di un film di Lynch è paragonabile ad un ‘viaggio’ psichedelico, sorta di laboratorio ecologico per un corpo ri-generato, finalmente fuori dalle visioni ridondanti e deprimenti da cui siamo circondati.
Un lento carrello in casa Palmer fino al dettaglio della foto di Laura reginetta della scuola, oltre quest’apparenza la macchina da presa di Lynch registra l’ambiguità del reale, del confine appunto tra bene e male, che è un filo sotterraneo a tutti i suoi film. Il cinema di Lynch è per intero un cinema noir, nel senso che, entrandoci dentro, il mondo come noi lo conosciamo sparisce ed assume valenze nuove ed inaspettate, improvvisamente non siamo più sicuri di quello che vediamo perché Lynch opera un’aggressione contro l’aspetto apparente delle cose e ci introduce, non senza dolore, in un pianeta osservato da un punto di vista inedito, quasi fosse un marziano che ci osserva nelle nostre mostruosità quotidiane, nelle ipocrisie e nelle falsità su cui è poggiato il nostro quieto vivere sociale, “mondo crudele che nasconde dentro di sé un cuore selvaggio”, che Lynch disvela e ci mostra in tutta la sua inquietante mostruosità.