19º Asian Film Festival – Strategie minimaliste

Edizione di buon livello che emerge non tanto per la qualità dei film in programma quanto per la capacità di ragionare sullo stato dell’arte delle cinematografie estremo-orientali. Ecco i vincitori

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L’edizione 2022 dell’Asian Film Festival offre diversi punti di riflessione, non tanto per la qualità effettiva dei film – generalmente buona, con inattese sorprese – quanto per la volontà evidente della manifestazione nel tracciare dei percorsi interni alle cinematografie estremo-orientali. Ciò che davvero emerge ad uno sguardo complessivo è un’indubbia propensione al gesto comunicativo, al desiderio esplicito da parte dei selezionatori di delineare con coerenza alcune delle direzioni filmiche intraprese dalle industrie cinematografiche asiatiche negli ultimi anni.

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A risaltare in primo piano sono sicuramente i grandi nomi: da Miike a Mendoza – a cui è stato consegnato il premio alla carriera – fino ad arrivare ad Ann Hui e Zeze, è chiaro il desiderio del festival romano di accentrare il pubblico cinefilo attorno alle loro figure, senza snaturare allo stesso tempo la propria dimensione di ricerca. Nella programmazione, aperta da The Mole Song: Final e chiusa simbolicamente da The Great Yokai War: Guardians, convergono film di segno ontologico (e produttivo) profondamente diverso, che aprono ad alcune riflessioni interessanti sullo stato dell’arte delle cinematografie dell’Estremo Oriente.

Sul versante giapponese la 19ª edizione dell’Asian Film Festival sembra offrire un approccio conservativo, ma comunque indicativo della direzione intrapresa dall’industria nipponica negli ultimi 10-15 anni. Oltre ai due (brillanti) sequel di Miike, la proposta dell’Asian si muove tra biopic e melodrammi tradizionali, cinema d’inchiesta e drammi introspettivi, con una linearità editoriale meritevole di attenzione. Da questa prospettiva In The Wake di Zeze è un film calato tanto nei manierismi estetici più (ab)usati del cinema nipponico odierno, quanto nell’orizzonte socio-politico del paese. Stagliando un racconto di detection sullo sfondo del disastro naturale del Tohoku, il regista trova la chiave adatta per indagare attraverso lo schermo le discriminazioni in seno alla società giapponese. E lo fa non con lo sguardo dell’ex provocateur esistenzialista dei pinku eiga anni ’90, ma mediante l’uso di quei registri (e toni) melodrammatici con cui il cinema industriale nipponico giunge all’enfatizzazione sensazionalistica del racconto. In direzione cioè di quella stessa deriva melensa sotto i cui colpi Moonlight Shadow (di Edmund Yeo) crolla totalmente. Se In The Wake adegua i sensazionalismi ad uno spirito polemico, smorzandone con intelligenza la carica mèlo, il film di Yeo ne (ri)cerca banalmente la dimensione sensoriale, in funzione esclusivamente atmosferica. Ne emerge un melodramma blando, per nulla tagliente, che aspira a raccontare le asperità di un lutto sentimentale senza prima impostare le basi su cui sviluppare il rapporto d’amore spezzato. Tutto in vista di un effetto emotivo superficiale, da cui sia Tsuyukusa (di Hideyuki Hirayama) sia Somebody’s Flowers (di Yosuke Okuda) sembrano smarcarsi con evidenza. Entrambi, infatti, declinano il lutto in una cornice realista, votata ora all’insegna della sottrazione emozionale. Ogni manifestazione emotiva va qui in contro ad un processo di privazione espressiva, con i racconti che convergono sempre più verso registri contemplativi. E in continuità con il cinema di Hamaguchi, i conflitti sono qui indagati non attraverso le azioni o l’esposizione verbale, ma mediante gli sguardi e la gestualità corporea, i silenzi e i pensieri sopiti. Non c’è nulla dell’esorbitanza sensoriale di Yeo, ma solo una catartica pacificazione dei sensi. Una introspettività che richiama i manierismi di molto cinema nipponico, e che assume una centralità nevralgica anche nella metodologia estetica del biografico Hokusai (di Hajime Hashimoto), in cui lo spirito meditativo è veicolo, mezzo e strumento unico attraverso cui problematizzare il significato della vocazione artistica.

Ma è sul versante del cinema coreano che il festival mostra un’intenzione comunicativa audace e coerente. Tutti i film selezionati, dal dramma sociale di A Leave a quello famigliare di Three Sisters, fino ad arrivare agli esiti realisti di Rolling, formano un corpus organico e coeso, tanto per gli analoghi approcci estetici quanto per le strategie comunicative che insieme rifiutano. Se il cinema coreano ha assunto negli ultimi anni una configurazione di genere, in cui la codificazione dell’action/thriller è fonte e veicolo del suo successo industriale, i film proiettati dall’Asian Film Festival sembrano seguire un sentiero opposto, in cui a dominare è lo spirito minimalista. Nel tono, come nel registro narrativo, ogni scelta registica risponde qui all’esigenza di moderazione, con il ritmo compassato a fungere da cassa di risonanza per gli orizzonti sociali (A Leave), oltre a quelli di natura intimista (Three Sisters) e domestica (Rolling, ma anche Mom’s Song di Shin Dong-min). Una dichiarazione d’intenti notevole, quella dell’Asian, che assume un’ulteriore anelito programmatico nel modo in cui tende ad associare anche la cinematografia thailandese ai suoi scenari più riflessivi e spirituali. Anatomy of Time (di Jakrawal Nilthamrong), Come Here (di Anocha Suwichakornpong) e The Edge of Daybreak (di Taiki Sakpisit) sono, di fatto, i rami di una stessa speculazione filmica: privilegiano tutti un regime scopico contemplativo, con la cornice anti-narrativa che assurge a luogo ideale per la dissoluzione spazio-temporale di uno sfondo politico tanto astratto quanto opprimente. È l’immagine di un cinema trascendente, che declina a fini critici il potere immersivo delle sfumature (mono)cromatiche e di sonorità grezze, per indagare la realtà fenomenica del paese nei suoi esiti più oscuri, crepuscolari e metafisici.

La concretizzazione di uno sguardo problematizzante che l’Asian Film Festival recupera anche nella sua offerta filippina. Tra le derive iperrealiste dei mendoziani Resbak e Gensan Punch e l’orizzonte socio-politico di On The Job, the Missing 8 e Big Night di Jun Lana, la kermesse romana (ri)afferma la volontà di inquadrare le parabole degli artisti filippini in una dimensione polemica (anche e soprattutto) alternativa. E proprio il film di Lana disvela una via parallela al classico racconto di denuncia, per mezzo di una declinazione ironica dei suoi stessi codici. Lo sguardo sulla corruzione distrettuale di Manila non è soffocante come in Resbak, ma tragicomico. La sua brutale realtà è qui il terreno, scenario e luogo ideale con cui il tono da commedia può mostrare gli esiti più disumani (e assurdi) di un mondo ormai lontano da qualsiasi speranza di salvazione. Un approccio oltranzista da cui allo stesso tempo prende le distanze l’offerta cinese, che rifiuta qui le derive politiche, in favore di racconti intimisti profondamente calati nelle realtà comunitarie (e urbane) di una Cina inter-spaziale. Negli orizzonti bucolici di The Wheat, come nella Guangzhou di The Way Back in the Mirror, a risaltare è l’intimità del rapporto soggetto-spazialità, che decreta una reciprocità di influenze tra la cornice iconografica e i percorsi esistenziali di individui in crisi, soggetti alle oppressive ramificazioni societarie. Non manca neanche una riflessione sulla contemporaneità, con il cortometraggio Mother in the Mist (della debuttante Niuyue Kay Zhang) che rilegge l’origine pandemica di Wuhan nelle sue vesti orrorifiche (e, forse, più metafisiche).

Cosa vuole comunicare allora questa edizione? È parso evidente come la selezione del 19º Asian Film Festival abbia cercato di delineare alcune indicazioni precise riguardo le direzioni intraprese dalle varie cinematografie orientali, senza sacrificare il respiro autoriale che da sempre contraddistingue la manifestazione. Se sul cinema giapponese ci si è arroccati su posizioni più convenzionali, ma comunque di qualità, per lasciare spazio all’irrefrenabile dinamismo dei due sequel targati Takashi Miike, è in relazione alle opere coreane e thailandesi che l’Asian getta luce sulle coordinate reali del suo progetto. Lontano dalle offerte “semplici” e conservatrici, il programma dell’evento si pone come crocevia ideale per un cinema di nicchia, in cui il linguaggio in sottrazione da un lato (Corea) e i canoni dello slow cinema dall’altro (Thailandia), aprono le rispettive cinematografie a nuovi e alternativi orizzonti di riflessione all’insegna di uno spirito minimalista. Tutto a confermare l’immagine di un festival autentico, che nella sua (pur limitata) sfera d’influenza desidera legittimare vie diverse – se non quando minori – in seno alle strategie industriali dei paesi orientali, per ragionare sull’eterogeneità delle espressioni filmiche dell’Estremo Oriente.

Di seguito i vincitori del 19º Asian Film Festival:

Miglior Film
On The Job: The Missing 8 (Erik Matti, Filippine)

Miglior Regia
The Edge of Daybreak (Taiki Sakpisit, Thailandia)

Miglior Attore
Ex aequo – Christian Bables in Big Night, Vince Rillon in Resbak

Miglior attrice
Kaya Kiyohara (In The Wake, Giappone)

Film più originale
The Wheat (Tang Yu-qiang, Cina)

Newcomers
Tiong Bahru Social Club (Tan Bee Thiam, Singapore)

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