2 giorni a New York, di Julie Delpy

2 giorni a new york julie delpy

Tra famiglie allargate, America obamiana e irriverenza francese, il sequel del grazioso 2 giorni a Parigi mostra i limiti della formula e dello sguardo della Delpy, troppo prigioniera dello stereotipo della parigina nevrotica. Una fiera di idiosincrasie che aspira alla leggerezza del primo Allen ma risulta banale quasi quanto uno scatto Instagram

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2 giorni a new york julie delpyCurioso questo sequel, a sei anni di distanza da 2 giorni a Parigi, in cui Julie Delpy, dopo The Countess, torna a raccontare il suo alter ego Marion, ormai separata da Jack e alle prese con una famiglia allargata insieme al nuovo compagno Mingus.

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Fuori quindi Adam Goldberg e al suo posto Chris Rock, conduttore radiofonico simbolo della nuova America obamiana, democratica, illuminata, ma forse troppo ossessionata da un politically correct che i caotici parenti francesi della donna fanno saltare di continuo, fumando erba, rigando limousine, deridendo insomma un certo perbenismo di fondo del mondo statunitense.

 

A parte la prospettiva rovesciata, dove sono gli europei stavolta a giocare in trasferta, 2 giorni a New York non sembra però aver molto da aggiungere al grazioso prequel: certo, l'attenzione dalle dinamiche di coppia si sposta su quelle familiari, dove le assenze – degli ex partner, dei genitori prematuramente scomparsi – pesano più delle ingombranti presenze parentali, ma fra critici d’arte velenosi, scorbutici elettricisti, vicini perbenisti e poliziotti ottusi la Delpy smarrisce questa direttrice più feconda per una più sterile critica degli Usa.

 

Nel tentativo di allontanarsi il più possibile dal personaggio di Céline e dalle atmosfere di Linklater, optando per una fiera di nevrosi alleniane, la Delpy si conferma ancora vittima di quel complesso della parigina che già nel '94, in Prima dell'alba, le faceva dire “Come odio, quando mi arrabbio o vesto di nero, che gli americani mi dicano Ma com’è carina, com’è francese”.

 

2 giorni a new yorkOdio o meno, le sue regie sembrano giocate unicamente in tal senso, facendo leva su ogni possibile cliché culturale  (la stessa scenetta dell' "anima in vendita" acquistata da un mefistofelico Vincent Gallo) e uno sguardo anonimo, che sfiora a tratti la banalità di un filtro Instagram.

 

2 giorni a New York è un ritorno all'autobiografia che mostra tutti i limiti di una simile impostazione. Soprattutto considerando che se Parigi aveva offerto alla Delpy uno scenario fertile con cui misurarsi, in cui mostrare il  volto inedito di una città costretta a fronteggiarsi con la propria leggenda, qui New York resta una quinta anonima, presa a modello di un’America solo in apparenza dinamica ma ancora troppo bacchettona.

 

Le gag si accumulano perdendo in ritmo e buon gusto – lo scherzo del cancro è davvero una pessima trovata – salvati soltanto dalla prova misurata e originale di Chris Rock, compagno e papà affettuoso invaso nei suoi spazi dall’orda di barbari francesi, capitanati, come nel primo episodio, dal padre della regista. Una volta esauriti i siparietti, il film recupera una dimensione intimista di sicuro più confacente al genere, con le fragilità delle coppie esposte ai troppi impegni lavorativi e sociali. Ma è un tempo troppo breve, una corsa verso lo scioglimento dei conflitti e uno scontato happy end, per un film che per gran parte della sua durata sembra indeciso tra la satira di costume e la commedia sentimentale.

 

Titolo originale: 2 days in New York
Interpreti: Chris Rock, Julie Delpy, Vincent Gallo, Dylan Baker, Kate Burton
Origine: Germania, Francia, Belize, 2011 
Distribuzione: Officine Ubu 
Durata: 91'
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