2° Unarchive Found Footage Fest: l’archivio come linguaggio del futuro

Il concorso internazionale del festival ha presentato diversi film capaci di (ri)creare un mondo ricollocando immagini già esistenti; come Picture of Ghosts e Manifesto

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Si è tenuto a Roma dal 28 maggio al 2 giugno il 2° UnArchive Found Footage Fest, rassegna dedicata al cinema d’archivio diretta da Alina Marazzi e Marco Bertozzi. Tra le varie sezioni presentate dal festival, gran parte dell’interesse era rivolto verso il concorso internazionale, a cui partecipavano 11 lungometraggi, veicoli dei diversi modi in cui le immagini possono essere polemizzate e attualizzate attraverso il loro riuso.

Interessanti le tematiche che hanno costituito i fil rouge che hanno messo in comunicazione tra di loro i vari film presentati. Diverse opere ad esempio hanno sfruttato il repertorio a propria disposizione per ricostruire un contesto politico e metterlo quindi in discussione. The Flag di Joseph Paris racconta quindi la condizione dello stato di diritto della Francia post attentati del novembre 2015, nel documentario più classico tra quelli visti in concorso, in cui un’iniziale precisione viene con il passare dei minuti sovrastata dall’eccessiva mole di elementi tirata in ballo.

Between Revolutions di Vlad Petri mette invece a contatto le esperienze rivoluzionarie dell’Iran del 1979 e della Romania del 1989, costruendo grazie all’archivio la relazione tra due personaggi finzionali che attraverso il proprio rapporto aprono una finestra sulle esistenze private che si scontrano con la Storia.

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Ben due lungometraggi guardano invece al contesto russo, con prospettive però opposte. Hydroelectric Joy di Alexander Markov racconta la costruzione della diga di Assuan in Egitto in collaborazione con l’URSS, osservando un mondo tanto lontano e attraverso immagini tanto esteticamente belle quanto insignificanti, da risultare sterile nel suo tentativo di satira. Manifesto di Angie Vinchito al contrario offre con estremo coraggio uno sguardo sulla Russia contemporanea attraverso video tratti dai social, mostrando giovani in un contesto in cui la libertà è oppressa, in un crescendo ben costruito di violenza e disperazione, fino ad una conclusione sconvolgente.

Quindi, Tana Gilbert affronta con Malqueridas la condizione delle donne madri nelle carceri cilene, utilizzando riprese clandestine delle stesse detenute, gesto simbolico che dà valore all’intero film, altrimenti debole in relazione alla portata del tema raccontato.

Diversi i registi in concorso che invece hanno impiegato l’archivio per rielaborare attraverso le immagini parte del proprio passato. È il caso del commovente Picture of Ghosts, in cui Kleber Mendonça Filho racconta la propria storia d’amore con il cinema attraverso il ricordo della propria casa, del quartiere in cui è cresciuto e delle sale che ha frequentato.

Attraverso Il cassetto segreto e l’infinito repertorio riscoperto nella propria casa d’infanzia, Costanza Quatriglio compie un riavvicinamento al padre Giuseppe, intellettuale siciliano che funge da guida in un interessante (forse troppo lungo) percorso tra i grandi avvenimenti del secolo passato. In Amor di Virginia Eleuteri Serpieri l’utilizzo di immagini d’archivio diventa invece la possibilità di creare un’altra dimensione, utile alla regista per colmare la distanza che la separa alla madre, morta 25 anni prima gettandosi nelle acque del Tevere. Anche Annika Mayer rivolge lo sguardo verso un trauma familiare, raccontando in Home Sweet Home la violenza domestica di cui era vittima sua nonna Rose, in un suggestivo contrasto con il Miracolo Economico tedesco degli anni ’60 ricostruito attraverso immagini Super8.

Hypermoon invece guarda al passato per elaborare il presente, con la regista Mia Elgberg che, affrontando la propria malattia, riflette sulla potenza delle immagini, capaci di fare in modo che il ricordo degli eventi sopravviva anche alla scomparsa di chi li ha vissuti. Impossibile da inquadrare è infine Home Invasion di Graeme Arnfield, in cui, nonostante l’ottimo materiale di repertorio, tutto il senso del film è comunicato attraverso i tantissimi e insostenibili cartelli scritti che si alternano per 90 minuti, raccontando un sospetto quasi complottista nei confronti della tecnologia.

Ottima è invece la selezione di UnArchive dei 12 corti, inserita anch’essa in concorso. Certo, in alcuni la voglia di “giocare all’avanguardia” risulta eccessiva, divenendo totalmente incomprensibile se non spiegata dettagliatamente (e in cosa consiste allora l’avanguardia?). Alcune opere come L’architetta Carla di Davide Minotti, We Should all be Futurists di Angela Norelli e La linea del terminatore di Gabriele Biasi dimostrano però, con valore assoluto e in certi casi con più forza dei lungometraggi stessi, come il cinema d’archivio possa essere, nonostante per definizione connesso con il passato, uno dei linguaggi del futuro.

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