24 FCAAAL – Il Festival di Milano, brevi resoconti dalla sua edizione più contenuta.

Questa 24esima edizione sembra essere stata di passaggio, un ponte gettato, tra mille diffiucoltà, tra il passato e il futuro. Al solito ottimo livello delle proposte, si accompagna una difficoltà economica che quest’anno si è fatta sentire con maggiore evidenza. Il taglio drastico del numero dei film in programma né è prova lampante.

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In attesa della 25esima edizione nella quale si annunciano modifiche e restyling, l’edizione 2014 si chiude, tutto sommato, con buoni risultati, tenuto conto del dimezzamento di risorse che non hanno aiutato l’organizzazione della manifestazione.

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Il Festival si propone sempre di più come occasione di incontro tra appassionati delle culture che fanno capo alle aree geografiche cui la rassegna è dedicata. Si moltiplicano, infatti gli appuntamenti che, a margine delle proiezioni, diventano momenti di riflessione che prendono spunto dal cibo o da altre tradizioni culturali di quei Paesi. Tutto ciò ovviamente favorisce la partecipazione al Festival di un numero maggiore di persone allargando lo spettro dei temi si favorisce chi non sia direttamente e immediatamente interessato al cinema.

Ma è proprio questa offerta, che sicuramente rende più ricco il festival, a costituire un rischio che porti a snaturare la centralità del cinema indebolendo il fulcro centrale sul quale si regge l’idea e la sua messa in opera. È comprensibile che la ormai diffusa povertà di risorse economiche disponibili, finalizzate a mettere in piedi iniziative di nicchia come questa, manifestazioni che non abbiano il marchio del grande evento mediatico, ma che lo siano sotto il profilo dei contenuti, spinge chi lavora nel settore ad allargare l’offerta provando a moltiplicare gli effetti della spesa economica, inventando, con bassi costi, nuove proposte che possano attirare un numero maggiore di persone, magari, come in questo caso, parzialmente disinteressate al cinema. Ma è altrattento innegabile che questa scelta comporti una compressione del tempo dedicato ai film e agli incontri. Il programma di quest’anno, ad esempio, in una delle due sale principali, l’Auditorium San Fedele, per alcuni giorni è stato limitato alle proiezioni del primissimo pomeriggio, le contemporanee manifestazioni nell’altra sala storica del festival, lo Spazio Oberdan, erano centrate sul cinema come occasione (anche per il pubblico dei più giovani) per uno sguardo ai cibi esotici e alle loro colture e utilizzazioni. La limitazione, quindi, del tempo dedicato alle proiezioni, per lasciare spazio a queste occasioni di incontro, sacrifica l’opportunità della visione di opere di maggiore rilievo e proprio nelle ore centrali del pomeriggio solitamente dedicate allo sviluppo dei programmi principali. Né purtroppo quelle visioni possono essere sostituite dalle sale periferiche impegnate dal Festival (Rosetum, Cinema Beltrade, ecc.) sia per la loro dislocazione rispetto al fluire del programma nelle sale principali, sia per l’impianto del palinsesto che, giustamente, in quei cinema prevede solo repliche di film già visti sugli schermi delle prime visioni. È forse necessario, in occasione di restyling per la prossima edizione, rimodellare un programma che ponga nuovamente al centro dell’attenzione il cinema con le sue molteplici forme di riflessione, in quelle cioè che siano scambio diretto tra pubblico e autori, tra addetti ai lavori e appassionati. Non bastano per questo gli incontri pomeridiani in contemporanea con i film, restando, infatti, prioritario per gli appassionati, l’interesse al cinema e alla sua visione.

Resta, infine, il problema delle repliche e delle possibili proiezioni al mattino, in cui recuperare la visione di qualche film, ma questa costituisce una caratteristica ormai consolidata del festival che non è mai mutata nel corso degli anni.

Quanto ai film l’interesse e la qualità restano prerogative decisive per la manifestazione. Ha pesato sulla consistenza numerica dei titoli in programma – si è arrivati ad un quasi dimezzamento delle opere – il taglio drastico di risorse. Ciò è accaduto sia per l’abbandono di alcuni sponsor privati e sia per la sempre maggiore difficoltà di reperimento di risorse pubbliche. Dei circa 90 film presenti negli anni precedenti il taglio ha determinato la presenza di 50 titoli che comunque hanno, come sempre, caratterizzato positivamente il programma. Il pubblico, ha risposto numeroso, segno di una consolidata riconoscibilità anche qualitativa del Festival e della necessità, quasi fisiologica, da parte di chi frequenta il cinema, di guardare immagini differenti rispetto a quelle del mainstream cinematografico di cui sembra non possa farsi a meno. Ecco le ragioni che rendono necessaria la difesa delle occasioni come quella di Milano, non per creare riserve da tutelare, ma per difendere una indispensabile e stimolante diversità culturale.

Non vi è dubbio che il film vincitore Bastardo del tunisino Nejib Belkadhi abbia avuto tutte le qualità per aggiudicarsi il primo premio, ma è altrettanto vero che anche altre opere, magari non sottilmente sofisticate come quella, abbiano potuto mettere in difficoltà il vincitore, come quella della taiwanese Cho Li, The Rice bomber che ha ottenuto una menzione speciale. Si pensi alla sincera coralità empatica di Scheherazade’s Diary della regista libanese Zeina Daccache o alla originalità di un film come An Inconsolable Memory del sudafricano Aryan Kaganof. Ma sembra inutile continuare nelle citazioni visto il buon livello generale della manifestazione. Così anche è accaduto per i cortometraggi con la vittoria di Afronauts della ghanese Frances Bodomo e per la sezione Extr’a, dove ha vinto il film Và pensiero dell’etiope Dagmawi Yimer. In questi programmi abbiamo trovato opere di sicuro valore purtroppo destinate a restare nel chiuso di queste iniziative o minimamente distribuite nella sempre più ridotta filiera dei circuiti culturali. Quest’anno è stata istituita la sezione Eventi Speciali Flash dove hanno trovato spazio film come il pluricitato noir Black Coal, Thin Ice del cinese Diao Yinan o il controverso Ladder to Damascus del siriano Mohamed Malas operazione che ci è sembrata soffrisse una ricercatezza eccessiva, di un intellettualismo un poco pedante, pur riconoscendo la sincerità dell’operazione e il suo valore in questo momento storico così travagliato per la Siria.

I tempi difficili incidono quindi, come si tocca con mano, soprattutto nel settore culturale colpendo gli eventi di minore impatto mediatico. In questi mesi Milano è immersa in quella voglia di riscatto che è rappresentata dall’ormai prossimo Expò che prenderà l’avvio tra un anno esatto. Ma purtroppo, come informano le cronache, la città non riesce a scrollarsi di dosso le solite preoccupazioni che compaiono all’annuncio di flussi di denaro, quando malaffare e politica trovano un punto di congiunzione. In questo clima di visibilità annunciata ha trovato spazio, ancora una volta il Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina, nella sua edizione forse più contenuta, quasi a rimarcare una indispensabile diversità, ma qui risiedono le ragioni che inducono a difendere con maggiore forza l’iniziativa pluriventennale che ha ormai occupato una posizione consolidata e riconosciuta nel tessuto culturale di una città complicata e vivace in cui vi è spazio sufficiente per le convivenza di eventi differenti per origine e finalità.

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