"8 MILE" – "Take our power b(l)ack" – Saturazione del vuoto Eminem

“8 Mile” è un film ex(stra)ordinario, che grazie alla capacità di cineasti già collaudati costruisce un/il mondo intorno alla vacuità del pop hip hop di Eminem e ritrova quella frontiera (e quella "funzione socio-industriale") che nel cinema americano degli ultimi tempi sembra persa tra continui remake e megavideoclip.

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Partire/tornare (d)ai "rage against the machine", all'omonimo ('92) che mette fine alla prima adolescenza della (mia) "Nevermind generation" ("bianca", giocando a calarci nella multirazzialità ancora (in)possibile (in) America), che abitava Seattle evitando il fuoco incrociato di parole&pistole-west/est coast dei rappers, prima di capire che Eddie Vedder e Tupac facevano in fondo la stessa cosa: cantare della propria vita ridiscutendola, un po' stile Garrel/J'entends plus la guitare. L'unione di metal e rap dei RATM , del "bianco" e del "nero" nelle sue forme più "violente" (che, calandoci, quindi sempre sballando/sbagliando, nei "chiacchiericci quotidiani borghesi" sono "i due estremi che coincidono", spesso anche nelle tematiche razziste e sessiste, tra battery e clan) cucite e scagliate contro la macchina/dominio allungava/allontanava quella frontiera già superata/sancita (nel mondo di Warriors nato dopo la rivolta77) da gruppi come Clash e Beastie Boys. "We wanna take our -dei "bianchi", dei "neri"- power back" cantavano i RATM, spostando l'orizzonte dalla razza alla "classe", "we wanna take our power black" sembra urlare 8Mile. Il rovescio del "black power": muscoli, culi e canzoni, freaks/neri nel circo dell'impero anglo/giudaico da mostrare in cambio della notorietà da spalmare sulle altre migliaia mandati in prigione o a macellarsi in avanscoperta. Allora "il fenomeno Eminem che Hanson inietta come un veleno, nel mondo tradizionalmente nero" di cui parla Simona Pellino, nella "loro" prospettiva diventa la medicina che può attutire i "germs" per i quali "la legge" aveva creato gli splendidi adesivi "…explicit lyrics". Più che un biopic un antibiotic. Se c'è una nuova frontiera creiamo un nuovo cow-boy e un nuovo "sogno".

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Eppure 8Mile è un film ex(stra)ordinario, che grazie alla capacità di cineasti già collaudati costruisce un/il mondo intorno alla vacuità del pop hip hop di Eminem e ritrova quella frontiera (e quella "funzione socio-industriale") che nel cinema americano degli ultimi tempi sembra persa tra continui remake e megavideoclip (e un'opera che commercialmente partiva da 30mln di dischi venduti rischiava fortemente di essere entrambi). All'origine c'è l'idea di Brian Grazer, già produttore del premio Oscar A beautiful mind, che anche nel voler fare un film sull'hip hop continua la sua ricerca tra biografie di antieroi (cioè eroi) di successo da portare sullo schermo. Personaggi (ir)reali che con tenacia e talento superano le barriere/frontiere che la loro diversità gli impone; ricerca e conquista, Eminem come John Nash nelle forme del cinema "classico" (rimando alla recensione di Giona A. Nazzaro sul film di Ron Howard), ridiscussione e riproposta dell'american way of life.


Avendo scelto Eminem come protagonista non poteva affidarsi ad un regista più rodato di Hanson nella direzione degli attori, che al suo primo film trasformò il biondo idolo delle adolescenti Tab Hunter in un serial killer (Sweet Kill, Sensualità Morbosa, 1973) e  in più di trent'anni di carriera ha diretto "emergenti" come Tom Cruise (Losin'it, 1983) e Isabelle Huppert (Bedroom Window, 1987), passando per gli adolescenti dispersi nelle luci livide di Times Square (The Children of Times Square, 1986), Rob Lowe&James Spader (Bad Companies, 1990) fino al Tobey McGuire di Wonder Boys (2000). Il suo lavoro sul rapper somiglia la trasformazione che Pasolini fece di Totò in Uccellacci Uccellini, svuota la sua maschera comune, sbiadisce (oltre ai capelli) gli eccessi clowneschi (il turpiloquio scontato, droga, omofobia, machismo alla ricerca dei gemiti di schifo delle signore borghesi), ne fa un "Clint Eastwood" con gli occhi da coniglio, uno "straniero senza nome" che sfida il villaggio dei "neri". 8 Mile non è un film stilisticamente "di Hanson", che nello scarto tra The Wild River ('94) e L.A. Confidential ('97) sembra aver abbandonato la sua "autorialità di thriller hitchcockiani" per mettere il suo artigianato a servizio di progetti molto diversi (…l'ultimo Oscar lo ha vinto per la miglior canzone originale Time have changed, di Bob Dylan…) alla ricerca (come per Grazer) di nuove storieroi americani alla ricerca del neo-classico (e questa volta danno per classico il cinema metropolitano di Scorsese, Hill). Per il resto tesse le fila, ripropone la sua trasformazione di Kim Basinger (ancora attori), a cui le lacrime che solcano le rughe danno un fascino molto più "vero" del miele sul ventre piatto di 9 Settimane e ½ e si affida alle doti di Rodriguez Prieto (Amores Perros) e dello scenografo di Sodebergh Philip Messina per costruire un mondo in cui far muovere l'immaginEminem.

Detroit diventa la vera protagonista del film, la città contenitore di strutture che svuotate dall'industria si riempiono della musica di figli arrabbiati di disoccupati (bianchi e neri, tant'è che i The Piranhas, gruppo garage-punk di Detroit descrivono lo stesso scenario  in un'intervista su Blow-up 57). La città della Motown, degli MC 5 e degli Stooges, che mentre i frikkettoni sorridevano ancora nel fango di Woodstock già cantavano No Fun ed ricercavano il rito/mito diabolico "nero" alle radici del rock, è questo il mondo che inghiotte e fa dimenticare Eminem (che da puro spettacolare in senso situazionista non ha radici). Qui si muove Jimmy Smith (simil Ethan) tra sentieri selvaggi che attraversa con la tecnica che ha imparato dagli stessi "indiani" (stereotipi black) a cui ruba la terra (che deve consegnare a quella stessa bandiera a stelle e strisce, qui ancora assente, che nell'ultimo Ford assume sempre un "valore sinistro"). Alla ricerca delle radici della nuova america, che presuppongono (ancora, sempre) una frontiera, uno scontro e un eroe; alla ricerca della "storia" dell'ennesimo stile musicale creato dagli afroamericani, seguendo la linea tracciata col cuore da Walter Hill in Crossroads, che si risolve nel duello finale tra Ry Cooder (nascosto da Ralph Macchio) e Steve Vai, dove all'animismo del blues si sostituisce il "realismo sociale" dell'hip hop. Certo "eticamente" siamo agli antipodi, il film è ex-ordinario proprio perché la tipologia del cow-boy è stata rovesciata completamente proprio dalla filmografia di Hill (che si lega al discorso musicale iniziale sulla "fusione" dei generi), ma è stra-ordinario perché da tempo Hollywood non trovava tanta forza nell'espletare le sue "funzioni". 8 Mile "realizza" la vita che Eminem "falsifica" nei suoi dischi, gli toglie le finte fosse scavate sotto la pioggia nei videoclip e gli mette in meno dei paraurti, rendendolo "più vero della realtà". "It's only rock'n roll, but I like it"!

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