A Date in Minsk, di Nikita Lavretski

Quello di Lavretski, giovane regista bielorusso, è un cinema consapevole, fin troppo intelligente, pur nella sua apparenza sgangherata e sporca. a Doclisboa 2022

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Nikita Lavretski e la fidanzata Volha Kavaliova hanno avuto per 8 anni un rapporto disfunzionale e tossico. Ora, per questo nuovo film, non mettono in scena sé stessi, ma interpretano due personaggi inventati, due ragazzi al loro primo appuntamento, dopo essersi conosciuti su Tinder.

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È la prima informazione di A Date in Minsk. Poche note di introduzione che settano immediatamente le coordinate di un film interamente sospeso tra realtà e finzione. Ma che, ancor più, testimoniano l’umorismo sregolato, a tratti spiazzante di Lavretski, giovane regista bielorusso ormai da anni nel circuito dei festival, impegnato a fare “film da festival”. Come non manca di sottolineare ironicamente, giocando sull’effettiva portata del suo statuto d’autore e della sua prolifica produzione che spazia da un genere all’altro nella libertà più assoluta. Sì, ci si può anche autoproclamare come leader di una nuova onda del cinema bielorusso, ma in fondo si tratta pur sempre di film “a zero budget”.

Ma è proprio questa marginalità produttiva a garantire la libertà. Nikita Lavretksi ne è consapevole. E del resto il suo è un cinema fin troppo intelligente, pur nella sua apparenza sgangherata e sporca. Come dimostra anche la scelta di filmare A Date in Minsk in unico, vorticoso piano sequenza, ripreso da Yulia Shatun. La cui mano e la cui ombra appaiono all’improvviso, in una tromba di scale, a ricordare, semmai ce ne fosse bisogno, che una produzione comunque c’è. Una macchina che riprende e che tenta di imbrigliare il flusso apparentemente incontrollato, spontaneo dei dialoghi tra i due personaggi, proprio ciò che dà l’impressione di un’immediatezza documentaria. Prima in una sala da biliardo, tra tiri goffi e improbabili. Poi immergendosi nelle strade di Minsk, fino alle piazze del centro. E sono proprio le parole, i gesti, gli atteggiamenti tra Nikita e Volha la struttura portante che regge il peso del film. Tanto da far venire in mente, a tratti, i dialoghi infiniti di Ethan Hawke e Julie Delpy nella trilogia di Linklater da Prima dell’alba a Before Midnight.

Sì, si parla tanto, finanche troppo. Ma è il modo in cui il film riesce a toccare una quantità di corde e di modulazioni. A raccontare le problematiche modalità di relazione delle nuove generazioni nell’era social, i sogni e le paure individuali, le speranze e i nodi inestricabili, sempre sottilmente dolorosi, degli amori e dei rapporti. Ma anche le contraddizioni della realtà bielorussa, oppressa dalla mancanza di libertà di espressione, nonostante le apparenti aperture della società globalizzata. Una realtà odiata e amata, ovviamente. Del resto, Minsk è l’altra grande protagonista del film. Come diventa evidente in uno dei momenti più significativi, quando Nikita e Volha escono dalla sala da biliardo, si incamminano per le strade buie e la camera li perde per vari minuti. Come fossero inghiottiti, risucchiati dalla città. Ed è anche il momento in cui diventa chiaro come il cuore vero di A Date in Minsk, il suo motivo di interesse più profondo, sia in questo sottile sfasamento e conflitto tra le modalità di ripresa e i dialoghi. Tra una parola che scorre incontrollata, schizofrenica, e deborda, ancor più dei gesti, e le immagini che girano attorno, cercano di stare al passo, di dettare il ritmo, per poi ritrovarsi a inseguire affannosamente e a perdere il punto. E, allora, ti chiedi a un tratto dove passa la linea di confine tra l’artificio e la verità. Se nelle dinamiche due protagonisti, che pur nel gioco dell’interpretazione, sono per forza di cose costretti a mostrarsi, a svelare alcune scintille della loro relazione “reale”. O se in un piano sequenza che smarrisce il controllo e ritrova l’immediatezza e la precarietà di una ripresa rubata sul campo, nel rischio della strada.

 

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.4
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Il voto dei lettori
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