A GOOD AMERICAN: Sentieri Selvaggi intervista il regista Friedrich Moser
A colloquio con il regista su temi come politica del consenso, spazio digitale, coscienza etica e manipolazione delle informazioni. Sullo sfondo, la vera storia di Bill Binney. ASCOLTA IL PODCAST
In uscita nelle sale il prossimo 2 marzo, A Good American – Il prezzo della sicurezza, con Oliver Stone nelle vesti di executive producer, è un docu-thriller che racconta la storia di William Edward “Bill” Binney – per trent’anni direttore tecnico della National Security Agency (NSA), una delle più importanti agenzie di intelligence al mondo – e del suo ThinThread, rivoluzionario programma di raccolta, decodificazione e incrocio di dati ed informazioni da tutto il mondo.
Dopo la fine della Guerra Fredda, il migliore decodificatore che gli Stati Uniti abbiano mai avuto, insieme ad un piccolo team all’interno della National Security Agency, inizia a sviluppare un rivoluzionario programma di sorveglianza – chiamato ThinThread – in grado di captare qualsiasi segnale elettronico sul pianeta, filtrarlo e fornire risultati in tempo reale sulla base di cinque indicatori di pericolo e di tre criteri fondamentali: distanza, velocità, varietà. Tutto questo senza invadere la privacy. Il programma è perfetto, a parte per un dettaglio: è troppo economico. Per questo motivo i vertici della NSA lo scaricano e ciò avviene tre settimane prima dell’11 settembre 2001. Quando la NSA incomincia la sorveglianza di massa dei cittadini americani in seguito agli attentati, il code-breaker lascia l’agenzia. Un amico prende il suo posto e, all’inizio del 2002, cerca di ridare vita al programma lanciando un test run basandosi sui dati conosciuti prima di quella fatidica data. Appena il software viene avviato, sullo schermo compaiono i nomi dei terroristi. La risposta della NSA è una sola: chiudere completamente ThinThread.
Come Edward Snowden, Binney si ritiene un patriota e non ha alcuna intenzione di ritirarsi dalla battaglia che ha intrapreso a salvaguardia dei diritti costituzionali e delle libertà fondamentali di uno Stato e di un individuo, nonostante abbia dovuto affrontare un indagine dell’FBI e le minacce di accusa da parte del Dipartimento di Giustizia. Al momento, ha in corso quattro cause contro il Governo americano per violazioni costituzionali. Il suo tentativo, dice, “è quello di ottenere un verdetto di anticostituzionalità di certe pratiche, al fine di far crollare questo castello di carte. La situazione in America va sistemata, ripulita: e io come cittadino cerco di farlo attraverso le corti di giustizia. Perché la democrazia non è uno sport da spettatori”. Nell’agosto 2014 Binney è stato tra i firmatari di una lettera aperta del gruppo Veteran Intelligence Professionals for Sanity al cancelliere tedesco Angela Merkel, nella quale si sollecitava ad aprire un fascicolo sull’intelligence americana per quanto riguardava la presunta invasione della Russia nell’Ucraina Orientale. Nel 2015 ha vinto il premio Sam Adams Award per l’integrità nell’intelligence.
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Sentieri selvaggi ha intervistato il regista del documentario, il quarantasettenne regista austriaco Friedrich Moser. Laurea in Storia e Studi Tedeschi presso l’Università di Salisburgo, Friedrich ha iniziato la sua carriera professionale come giornalista televisivo a Bolzano. Nel 2001 ha fondato la società di produzione per film e televisione Blue + Green Communication. Nel 2008 ha partecipato con successo al Documentary Campus, una master-class europea dedicata al non-fiction filmmaking, dove è tornato a concentrarsi sul mercato internazionale. Friedrich dà lezioni di storia e documentario all’Università di Vienna (Dipartimento di Economia e Storia Sociale) e insegna produzione video alla Secondary School for Commercial Graphics a Bressanone. Negli scorsi anni, Friedrich ha realizzato più di venti documentari, molti dei quali in veste di autore, produttore, regista e direttore della fotografia. Tra questi, il documentario The Brussels Business (2012) sulle attività di lobby a Bruxelles. Il film è stato distribuito in oltre quindici paesi. La maggior parte dei suoi lavori sono documentari per la televisione, centri di ricerca e musei.
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Leggendo anche le note di regia, mi ha colpito il fatto che sei laureato in Storia Contemporanea, quindi hai affrontato studi storici e, anche nello scegliere il format di questo film – un documentario – hai comunque optato per un tipo di linguaggio che si presta molto alla ricostruzione storica. Certo, l’importanza di quello che hai rappresentato, proprio anche l’urgenza espressiva dell’argomento ha fatto sì che il documentario fosse incentrato soprattutto sulla vicenda e la vita di Bill Binney, lasciando magari poco spazio ad un’indagine storica più approfondita su tematiche come la politica e la ricerca del consenso nel corso dei secoli, importantissima nel Novecento. Emerge comunque la tua formazione storica, un’angolazione storica. Dati i tuoi studi, come è cambiata secondo te, negli ultimi cinquant’anni, questa ricerca del consenso e il concetto di democrazia si è evoluto o è degenerato. E quanto il consenso viene manipolato?
“Credo che una manipolazione delle politiche ci sia sempre stata. Non penso che sia una cosa nuova. Quello che è cambiato, invece, è il livello di controllo attraverso la nuova tecnologia, ciò che è possibile adesso e non era possibile venticinque anni fa. Quello che è davvero pericoloso adesso è che non esiste più quell’equilibrio tra il potere esecutivo, legislativo e giudiziario. Quello che esiste adesso – e che è causato dall’incredibile sviluppo di queste tecnologie digitali – è uno straordinario potere allocato proprio nella sfera del potere esecutivo, così che il potere esecutivo ora sorveglia e domina gli altri due poteri. Ciò conduce ad uno squilibrio totale della separazione dei poteri, ad uno sbilanciamento. Si tratta di uno sviluppo molto pericoloso. Quello che manca oggi è una discussione sull’ambito digitale. Lo spazio digitale è un ambito a parte rispetto al nostro ambito fisico o no? Perché se è un ambito separato da quello fisico vuol dire che dovrebbero esserci nuove regole, nuove strutture e nuove politiche che consentano di esprimersi attraverso e di abitare questo spazio digitale; se invece fa parte del nostro ambito fisico e ne è solo un’estensione, le stesse regole che finora hanno regolato tutta la nostra esistenza analogica sono valide anche per la nostra vita digitale. E questa è una discussione che non c’è, è un dibattito che dobbiamo introdurre. E spero che con il mio film si possa fare un primo passo in questa direzione”.
Dici che si tratta di un film etico: non un film politico – è vero che è incentrato su vicende americane, ma può riguardare qualsiasi paese – non un film tecnologico e sui programmi di sorveglianza, per quanto se ne parli diffusamente. È un film sulla coscienza, sui valori etici. Ecco, come conciliare questi valori etici con la società contemporanea, così globalizzata, nel senso: l’etica individuale e la coscienza di ognuno di noi – trasmessaci dai nostri genitori, dagli studi che abbiamo fatto, dalla società in cui viviamo – come fa a conciliarsi con questa “etica globalizzata”, collettiva, per cui oggi tutti esprimono un giudizio, anche morale, su qualsiasi cosa? La questione etica oggi è particolarmente complessa.
“Credo che il discorso etico sia sempre stato complesso, difficile. Quello che è cambiato rispetto ai tempi precedenti alla diffusione di internet è che adesso questo discorso si svolge con molte più voci rispetto a prima, perché prima tutto era filtrato e adesso non lo è. Ciò vuol dire che tutto quello che non suscita senso e che prima era filtrato adesso rientra nel dibattito della rete. Tuttavia, ritengo che dal punto di vista etico ci siano dei valori invariabili, universali, e sono i valori di cui parlo nel film: proteggere le libertà civili e i diritti umani e garantire la privacy a tutti quelli che non sono sospetti. Ed è proprio questo che oggi è cambiato attraverso la tecnologia. Qui sta la differenza tra l’approccio che ha preso Bill Binney – ovvero il sorvegliare solo i sospetti sulla base di informazioni e ricerche precedenti e sulla base di un procedimento regolare, ordinario e giuridico, ed è quello che io chiamo l’approccio specifico – e quello di molti governi di oggi. Adesso tutti noi siamo in qualche modo sospetti, ma come mai? Cosa abbiamo fatto? Perché siamo sospetti? Anche in questo caso ci sono delle regole che sembrano del passato recente, del XX secolo, ma in realtà sono regole che sono state create secoli fa, come quella dell’habeas corpus, la prova della colpa. Questo è stato totalmente accantonato. Quello che accade oggi è intorpidire, per così dire, tutti quei concetti sullo Stato che hanno funzionato e ribaltarli, capovolgerli”.
Questo perché evidentemente ciò fa comodo a lobbies o comunque a qualcuno …
“È dovuto ad interessi particolari, finanziari. E questo secondo me è assolutamente scandaloso”.
Parliamo di aspetti più tecnici. In apertura di documentario si vede Bill su una sedia a rotelle avanzare in un corridoio, con un bel piano sequenza, e la macchina è come se fosse tenuta da lui perché si vedono i sussulti tipici di un uomo che avanza su una sedia a rotelle. Si tratta di un’idea forte perché fa vedere la realtà dal suo punto di vista, il punto di vista di un uomo che ha lottato e che ha vissuto tutto sulla sua pelle. Ci sono stati altri accorgimenti tecnici che hai usato nel girare il documentario, proprio per rendere anche visivamente quello che stavi raccontando?
“Abbiamo incontrato varie difficoltà. La prima è stata come illustrare e raccontare visivamente una storia della quale non esiste una sola fotografia del protagonista al lavoro. La soluzione che abbiamo adottato, da una parte, ricrea lo scenario tecnologico in scene drammatizzate, tipo fiction o reenactment, e, dall’altra parte, permette soprattutto di catturare l’emozione del protagonista e degli altri personaggi. Abbiamo cercato di trovare delle situazioni in cui loro fanno qualcosa che, in modo metaforico, si ricollega a quello che raccontano nelle interviste. Penso sia stata una bella trovata e, forse, avremmo dovuto basare di più il film su questo per renderlo ancora più forte e denso emotivamente. Voglio inoltre aggiungere che per me un documentario di cinema è diverso da un documentario televisivo. La cosa importante in un documentario per il cinema è che deve saper intraprendere lo stesso percorso di qualsiasi film, il che vuol dire fare della visione di quel film un percorso emozionale: prendiamo lo spettatore e lo mettiamo nella pelle di Bill Binney, una vera e propria immersione non solo in quelle situazioni, ma proprio in quel personaggio, in quel modo di pensare, in quel ragionamento. Un’altra cosa che si è rivelata molto difficile è stata la struttura: come raccontare questa storia? Ci sono, infatti, tante storie nello stesso momento: c’è una storia che attiene allo sviluppo di quel programma di sorveglianza e di come è stato adottato all’interno del management della NSA; un’altra storia è quella della beautiful mind, il matematico geniale e di come pensa; c’è una storia di amicizia tra questo gruppo di colleghi; poi c’è la storia che riguarda il percorso attraverso il quale Bill è arrivato a comprendere che i metadati sono più importanti del contenuto, in senso stretto, della comunicazione. Abbiamo arrangiato tutto questo in un film ed è stato un lavoro molto complesso e faticoso. Infatti, abbiamo dovuto realizzare due montaggi poiché quello che avevamo già, quello, diciamo, grezzo non funzionava, per cui ci siamo messi a rimontare l’intero film”.