A History of Defiance
Come ogni cosa in Iran, anche il cinema mostra due facce: le sale del paese sono piene di casti romance e film di propaganda bellica; il mondo può invece vedere e celebrare le opere di quella che è una delle più lunghe e durature nouvelle vague del mondo. La condanna di Jafar Panahi dimostra che la storia del cinema iraniano è sempre stata all’insegna della clandestinità, oggi come ai tempi del regno di Reza Palhavi: come sostiene Hamid Dabashi, la sala è stata l’unico luogo in cui al suo popolo era possibile accedere alla modernità.
C’era qualcosa di straordinariamente liberatorio nella grandezza apparentemente senza fine di uno schermo bianco che diventava improvvisamente buio, e poi si illuminava di colorate (im)possibilità. Nei cinema, rinascevamo come cittadini globali, in una ribellione contro la tirannia di quel tempo e contro l’isolamento dello spazio in cui volevano confinarci. Nel cinema tutto era possibile e in quelle possibilità noi sfidavano le limitazioni che ci paralizzavano. Il cinema rivelava le nostre speranze nascoste di nazione. Con tutte le restrizioni politiche e religiose che limitavano le nostre esperienze visuali e i nostri piaceri, noi ci svegliavamo nell’arcobaleno di immagini che coloravano il sogno ad occhi aperti cinematografico.
(Hamid Dabashi, Close Up: Iranian Cinema, Past, Present and Future)
Sin dai tempi di Dariyush Mehrjui (che nel 1970 vinse il Premio della Giuria a Venezia, con La vacca: uno dei primi riconoscimenti internazionali del cinema iraniano) e di Sohrab Shahid-Sales, si potrebbe dire che la storia del cinema iraniano è una storia di perenne clandestinità: anche durante il regno di Reza Palhavi, il codice censorio era molto duro e difficile da aggirare. Nell’Iran oscurantista di Khomeini e di Khamenei, la situazione è evidentemente peggiorata. Istituzioni di controllo come il Kanoon (che si occupa dello sviluppo culturale dei giovani) e il Farabi (predisposto alla consulenza governativa dei registi e degli sceneggiatori) hanno condotto ad una situazione che ha due facce, come quasi tutte le cose in Iran: davanti ad un cinema ufficiale che si divide tra la propaganda bellica e le caste produzioni romantiche, che ha delle proprie onoreficenze e delle proprie rassegne come il Fajr, il mercato clandestino fa circolare tutto quello che agli iraniani non è permesso di vedere. La censura controlla direttamente la vendita della pellicola e allora i giovani cineasti cercano di andare avanti con altri mezzi: in alcuni casi ricorrono al video; in altri, tentano la strada abituale dell’allegoria e dell’allusione simbolica; nelle circostanze più estreme, vanno a girare nei paesi più vicini. L’abitudine del cinema iraniano a sfidare l'autorità è talmente radicata nella sua natura che viene spontaneo domandarsi se potrebbe continuare a sopravvivere anche in un auspicabile regime di libertà d’espressione: come è capitato ad altri esempi come il neorealismo italiano o la Hollywood del maccartismo, sembra quasi che la duratura nouvelle vague iraniana abbia bisogno delle ristrettezze e della idiozia dei codici imposti dagli ayatollah. Più le norme si fanno rigorose e più il cinema iraniano sforna nuovi autori pieni di coraggio e di personalità, capaci di affrancarsi dai maestri e dai pionieri come Abbas Kiarostami senza però sfidarne il carisma, abili nel rendere profonde e poetiche anche le situazioni più umili e ordinarie. L’arresto di Jafar Panahi assume un valore simbolico proprio perché va a colpire un uomo che in qualche modo è già considerato un maestro, rispetto alla nuova generazione: se Mohsen Makhmabaf si faceva arrestare per le sue dimostrazioni contro Reza Palhavi e poi faceva imbestialire i severi custodi della morale islamica, sua figlia Samira Makhmabaf a diciotto anni era già pronta a rilanciare la sfida e a presentarsi a Cannes con The Apple, che denunciava la condizione della donna all’interno della dittatura teocratica. Da quando Il sapore della ciliegia vinse la Palma d’oro nel 1997, i Festival internazionali hanno consacrato il cinema iraniano come uno dei più interessanti di tutto il mondo: non ce n’è uno che non ritenga necessario impreziosire così il suo catalogo. Tuttavia, è sempre un lato della prismatica complessità che l’Iran mostra al mondo: l’eccessiva intraprendenza viene punita con l’esclusione dalle sale, che invece vengono riempite dalle innocue commedie e dai film d’azione di registi come Rasoul Mollaqolipour, Bahram Beizai e Ebrahim Hatamikia, che hanno condiviso un’esperienza artistica necessaria ad entrare nelle grazie dei Guardiani della Rivoluzione: l’impegno nella gloriosa guerra contro l’Iraq come documentaristi. Da decenni, i nomi più premiati nel mondo delle rassegne internazionali subiscono la peggiore delle beffe: quella di essere tagliate fuori dalla distribuzione, quando non all’esilio produttivo. Se salgono alla ribalta delle cronache, è perché il regime ha deciso di perseguirli penalmente, come nel caso di Jafar Panahi: l’arresto dimostra però come le idee del cinema iraniano scorrano sottilmente tra le pieghe della società, almeno quella più cosmopolita di Teheran, che nell'estate del 2009 si è resa protagonista di un forte movimento di protesta represso nel sangue. Se non fosse stato percepito come un pericolo per la propria sopravvivenza, il vincitore del Leone d’Oro per Il cerchio non sarebbe stato brutalmente ridotto al silenzio. La crudeltà delle pene imposte dalla legge islamica è nota da tempo: costringere Panahi a rinunciare al suo linguaggio è un contrappasso che equivale a metterlo sulla forca. Tuttavia, c'è una considerazione che può dare più di una speranza: nonostante si provi ad eliminarlo da più di cinquant'anni, il cinema non è mai stato cancellato dalle abitudini culturali della popolazione, che l'ha sempre scelto come l'arma preferita per il dissenso. Lo strano caso di una forma di comunicazione che trae forza e vitalità dallo spazio sempre più stretto in cui è confinata, che onora i suoi martiri nel migliore dei modi possibili: proseguendone l'opera.