A Man, di Kei Ishikawa

Dopo il formidabile Traces of Sin, Ishikawa ritorna ad Orizzonti con una superba riflessione sulla natura fluttuante dell’identità, senza offrire risposte facili né vie di fuga aleatorie o confortanti

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Identità nascoste da cui si cerca ossessivamente riparo. Personalità fluttuanti alla base di soggettività impossibili da definire. Nei migliori film di Kei Ishikawa, i personaggi sono sempre racchiusi in gusci identitari fuorvianti, che mostrano in superficie solamente una porzione limitata della propria essenza. Ed è nell’istante stesso in cui il mondo li rigetta, proprio perché forieri di mezze (e talvolta false) verità, che essi iniziano a scontrarsi con il dato reale, rivelando drammaticamente l’artificio di partenza. Un approccio che il cineasta è solito disvelare tanto nelle sue ramificazioni futuristiche (come in Arc o Ten Years Japan) quanto nelle configurazioni contemporanee (Traces of Sin), e che in A Man ritorna nei suoi esiti più spiazzanti e indagatori.

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Ed è proprio con l’indecifrabilità identitaria del formidabile Traces of Sin – presentato anch’esso a suo tempo nella sezione Orizzonti di Venezia – che il nuovo film di Ishikawa intrattiene un legame tematico immediato, evidenziato già dall’indefinitezza del titolo. Perché A Man, “Un Uomo” è una formula indeterminata: può alludere ad uno o chiunque. Potrebbe indicare il protagonista Kido (Satoshi Tsumabuki), un avvocato di origine coreana ingaggiato dalla vedova Rie (Sakura Andô) una volta scoperto che il defunto marito ha vissuto sotto falso nome, così come lo stesso “Daisuke” (Masataka Kubota), che ha acquisito una nuova (e mai realmente piena) identità nel vano tentativo di sfuggire al suo passato traumatico. Ma la verità che emerge nel dissotterramento del rimosso, si scontra inevitabilmente con la sua inintelligibilità di fondo. Per Ishikawa infatti non esistono risposte esatte ad interrogativi propriamente aleatori. Ad interessargli qui è il momento critico, l’istante drammatico in cui le identità (tra)ballano e i personaggi affrontano senza difese le proprie fragilità. E anche chi sembra al sicuro da questo scenario, come il ferreo e imperturbabile Kido, ne è in realtà indissolubilmente attratto. In questo senso, rifiutando di riconoscersi come uno zainichi (un emigrato coreano in terra giapponese), egli non fa che “riciclare continuamente la sua identità”, nascondendo così a sé stesso il nucleo essenziale (ed esistenziale) su cui costruisce la sua immagine sociale.

Dove A Man eccelle, perciò, è proprio nell’indagine di quegli spazi interstiziali che “riempiono” i vuoti identitari, nelle zone d’ombra a metà tra verità apparenti e certezze fugaci. I suoi personaggi sono così alla costante ricerca di corpi da abitare, di identità stabili da poter finalmente metabolizzare. Cercano di (ri)trovarle sia dentro di sé che negli altri, senza ottenere mai un risultato che appaghi il loro anelito alla (auto)esplorazione. Le immagini rifratte dagli specchi sembrano restituir loro solo il ritratto di volti dispersi, incapsulati in tratti somatici al limite dell’indefinibilità. Al film allora non resta che viaggiare lì nel mezzo, lungo i binari di esistenze oscillanti e liminali, che sottendono verità sorprendenti e mai facilmente decodificabili. Ed è così che si aprono le forbici d’indagine per quella dispersione identitaria in cui vive tutto il miglior cinema di Ishikawa, di cui questo A Man è senza dubbio tra le rifrazioni più profonde e lucenti.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.8
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Il voto dei lettori
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