A Quiet Passion – Incontro con Terence Davies

Dopo aver commentato la bella luce romana Terence Davies racconta della sua Emily Dickinson, donna spirituale coerente con se stessa e piena di passione e senso dell’umorismo. In sala dal 14 giugno

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Nel 2016 Terence Davies gira il biopic sulla poetessa statunitense Emily Dickinson, e ora, a due anni dal suo compimento, il film arriva nelle sale italiane il 14 giugno distribuito dalla Satine Film: “È doveroso portare in sala film così“, sostiene Claudia Bedogni della Satine, “c’è un fil rouge fra i film scelti da noi e cioè che oltre alla bellezza veicolino sempre anche dei contenuti. Personalmente quando ho visto questo film ho pianto e mi era successo, con quelli distribuiti da noi, solo con Alabama Monroe. Questo film arriverà al pubblico e spero che arrivi soprattutto ai giovani che devono vivere la cultura come parte integrante della loro vita. Il film mi è stato segnalato da una ventenne e sono stata molto felice di questo. Per quel che riguarda l’aspetto tecnico, non lo abbiamo fatto uscire in piena stagione perché il film ne avrebbe sofferto accanto alla marea di colossi che uscivano. Con l’estate è meglio, c’è meno pienone e c’è possibilità di uscire con più copie. Se avessi scoperto prima questo film l’avrei distribuito subito, senza esitazioni“.

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Nel suo A Quiet Passion, il regista inglese ripercorre la vita della poetessa, dalla sua giovinezza fino alla morte prematura per problemi ai reni. Oggi Terence Davies ha incontrato la stampa romana, commentando la bella luce di questa giornata nella Capitale: “Per me è stato molto importante catturare la giusta luce nel film. Siamo andati a visitare la casa dei Dickinson ed è una casa molto bella, luminosissima, a differenza di quella del fratello, poco più su sulla collina. La casa è un museo adesso e non abbiamo potuto girare lì, abbiamo girato gli interni tutti in Belgio, e ricostruito il giardino. A me premeva dare una luce densa, soprattutto nell’ultima parte del film, in cui Cynthia Nixon indossa il vestito bianco, colore che Emily Dickinson dopo la morte del padre non ha mai smesso di indossare. Mi piaceva l’idea che la luce sul vestito pian piano lo rivelasse sporco, fino alla sua morte in cui torna a risplendere.
Venuto a conoscenza della poetessa a 18 anni grazie alla poesia Poichè non potevo fermarmi per la Morte, Davies ha recuperato gli scritti della poetessa solo più tardi e per lui sono stati una folgorazione: “Emily Dickinson è stata una grande artista. Molte cose di lei mi hanno attirato, anche degli aspetti per me autobiografici. Lei era molto legata alla famiglia, voleva restare al suo interno per sempre. Io anche pensavo che la mia famiglia fosse la più bella e che non l’avrei lasciata, poi le cose cambiano, c’è chi muore, chi se ne va, non puoi arrestare il tempo. In più c’è l’aspetto della malattia che è stata terribile, all’epoca non avevi antidolorifici. Ma lei viveva tutto con una strana forma di accettazione, la si può scovare anche nelle sue poesie, che sono struggenti e toccanti, a loro modo sempre leggere. Pensiamo a quanto è leggera, in un certo senso, la poesia sulla morte, ma anche Lettera al mondo, dove accetta la vita, il mondo.

Emily Dickinson ha visto pubblicate solo 11 delle sue poesie su un carteggio che ne conta  più di 1800 e questo è un aspetto che ha attirato il regista: “Era all’avanguardia per i suoi tempi, e come molti artisti, non ha avuto fortuna. Questo mi interessava ma quello che più mi premeva raccontare era la tensione della domanda legata al dopo, a ciò che succederà alla nostra anima. Emily Dickinson era una persona molto spirituale e spero che

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questo si colga. Ha difeso l’integrità del suo animo e ha cercato di vivere sempre coerentemente con se stessa, perché pensava spesso alla destinazione della sua anima. E questo dovrebbero farlo tutti, sempre. La questione dello spirito e dell’integrità morale mi è molto cara, io sono nato a Liverpool che all’epoca vedeva arrivare molti irlandesi che portarono la religione cattolica. Io non credo nell’aldilà, non sono cattolico ma penso sempre all’anima, ogni giorno mi faccio un esame di coscienza, e sento sempre un grande vuoto. Come riempirlo? Non so, so solo che voglio essere cremato, e magari mandare le mie ceneri nello spazio, ma essendo inglese probabilmente ricadranno in Inghilterra“.

Molto ben restituita l’atmosfera dell’epoca, attraverso una messa in scena attenta ai dettagli e una lentezza di esposizione a cui il regista è devoto: “Innanzitutto mi premeva restituire il tono dell’epoca, io ho lavorato molto sul linguaggio. All’epoca l’inglese americano era diverso perché il Regno Unito era dominante. Per esempio l’abbreviazione Can’t non esisteva quindi si diceva Cannot“.
E continua: “Io faccio i film come li vedo e sento, non credo nel  montaggio veloce che per me è come il fast food, è falso ed altera la percezione senza lasciare nulla. Quindi sì, il mio è un cinema lento ma se ti soffermi e rispondi a questa lentezza puoi cogliere l’attimo fuggente. In ogni film mi piace catturare il ricordo, la memoria, il tempo (N.d.R.nel primo film Distant Voices, Still Lives protagonista è la famiglia con i suoi ricordi) e questo lo faccio con una taglio specifico magari o una carrellata lenta per tornare indietro o una dissolvenza, che per ognuno di noi può essere avvertita in modo diverso. A me interessa catturare i momenti, gli istanti. Anche per questo quando dirigo gli attori cerco sempre di non ripetere troppi ciak, di far si che sia buona la prima, per quanto possibile.

Il regista si è innamorato di Cynthia Nixon guardando per la prima (e ultima volta) Sex And The City: “L’ho visto solo una volta e senza audio perché volevo vedere gli sguardi di Cynthia, che erano sempre verissimi. Cynthia è una donna piena di passione e di senso dell’umorismo, due cose che servono nella vita perché sennò è come essere morti. È stata bravissima nel restituire Emily che possedeva queste due caratteristiche.
Era una grande artista e come tutti i grandi artisti, spesso non sanno quanto valgono. Lei per certi versi era anche estremamente convenzionale come molti artisti. Henrik Ibsen non si spogliava mai davanti al dottore, perché non voleva essere visto nudo da persone estranee. Non so era una femminista, per me era prima di tutto una grandissima poetessa, piena di umanità. E come tutti i grandi artisti era rivoluzionaria senza esserne troppo cosciente“.

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