A Real Pain, di Jesse Eisenberg
Il tour sull’Olocausto ebreo intrapreso da due opposti cugini diventa occasione di intelligente ed emotiva riflessione sulla pervasità del dolore passato e presente. RoFF19. Alice nella città,

Un singolo sospiro, quasi uno strozzamento dispnoico, con il fiato che manca di fronte alla visione delle scarpe delle migliaia di deportati a Majdanek, il campo di concentramento situato a quattro chilometri dall’ “Oxford ebraica” che è la città polacca di Lublino. Durante il tour sull’Olocausto intrapreso per commemorare la morte dell’amata nonna, Benji (Kieran Culkin) sta guardando con insostenibile commozione quest’ammasso di calzature logore, “scarpe della memoria” che camminano sia tra i suoi geni, che discendono tramite un paio di generazioni da quella tragedia, sia tra i ricordi personali di giovane uomo alla difficile ricerca del proprio posto nel mondo. David (lo stesso Jesse Eisenberg), il cugino quasi coetaneo con cui ha un rapporto complicato di amore/odio, è accanto a lui e sente la realtà del suo dolore. Così gli appoggia la mano sulla spalla, contribuendo a causare quel singolo singhiozzo carico di sentimento e centinaia di non detti. La MdP sceglie di rompere però con brutale pudore il momento, tornando al racconto con un campo lungo che riprende il bus dei partecipanti del viaggio. Con uno degli stacchi più belli di quest’anno cinematografico – forse anche degli ultimi – Jesse Eisenberg cesella il suo secondo straordinario film da regista, regalandoci un’opera ispiratissima nonostante la spigolosità del tema e l’inflazionamento cinematografico a cui la shoah è ancora sottoposta.
Attraverso il difficile confronto tra l’esuberante Benji – ed il suo armamentario di canne, vestiti da fricchettone e continue pacche sulle spalle a tutti – e il ben più rigido David, l’attore e regista statunitense riesce con sorprendente naturalezza a raccontare una storia che, in miracoloso equilibrio tra particolare ed universale, riflette sulla subdola natura di un dolore che, surrettiziamente e subdolamente, colpisce anche individui dall’animo all’apparenza conciliato. Prendendo spunto da una vicenda ascrivibile alla sua biografia e servendosi delle riconoscibili strutture della commedia indie e dell’on the road morale, Eisenberg in A Real Pain si muove quindi con intelligente libertà nei territori dell’emotività pura – la confessione di David al tavolo con gli altri partecipanti del tour organizzato – e in quelli di certa ironia yiddish – le pietre lasciate dai due protagonisti davanti la casa della nonna ma fatte togliere dal burbero dirimpettaio polacco. Con una pulizia formale che non diventa mai leziosità, il film regala inoltre alcuni momenti di partecipe umanità, come nella scena della foto buffa, guidata ovviamente dal più imprevedibile e caloroso del gruppo, di fronte al monumento in ricordo della Seconda Guerra Mondiale. E nel bellissimo finale aperto quando Benji, a differenza del cugino che ha una famiglia ad attenderlo, torna all’aeroporto con i segni nel viso di un malessere che non è stato lenito dal viaggio terapeutico, si avverte empaticamente la profondità del dolore di chi, nonostante i fortunati accidenti che l’hanno portato a vivere una vita lontana da guerre e genocidi, si ostina pervicacemente a soffrire.