A Working Man, di David Ayer
Sylvester Stallone scrive un film lucidissimo, con cui continua a testare la tenuta del suo immaginario e si pone l’unica domanda possibile: e se quella dell’action hero fosse solo una performance?

Forse era già tutto nell’ottimo Homefront. Il nuovo statuto dell’action hero, il gioco cinefilo, il tentativo di raccontare da fuori un genere, forse anche le radici di un discorso che Sylvester Stallone riprenderà anni dopo. Homefront nasce infatti da un suo script inizialmente pensato per un ultimo capitolo di Rambo ma che l’attore adatterà per Jason Statham, affidando la regia a Gary Fleder e immaginando il film come un noir da provincia meccanica tra Scott Cooper e Cape Fear, giocando, per un attimo a separarsi da sé.
Ecco, A Working Man nasce da un altro script di Sly e riparte non solo da premesse gettate poco più di dieci anni ma evidentemente anche dalle esperienze di uno Stallone sempre più consapevolmente multy culty, che quel Rambo “finale” alla fine l’ha davvero girato (ambientandolo in gran parte in Messico) e che già in Tulsa King si è prestato a essere pedina dell’apocalittica distruzione di un primo immaginario conservatore, quello del Mafia Movie. E Stallone qui ritrova uno Jason Statham sempre più ‘operaio’, che da The Beekeper si porta dietro David Ayer ed il suo sguardo casinista al punto giusto per ciò che intende fare Stallone.
Ad una prima occhiata A Working Man pare un altro progetto legato all’ormai nutrita galleria di eroi proletari del cinema contemporaneo, con al centro un altro dei lavoratori in incognito di Statham, che stavolta è un ex Royal Marine che in America si è fatto una nuova vita come capo cantiere. Sarà tuttavia costretto a riprendere le armi in mano quando la figlia dei loro datori di lavoro (messicani) verrà rapita da un gruppo di trafficanti di esseri umani.
Eppure A Working Man sembra portarsi dietro un affascinante retrogusto “finale”, perlomeno per i discorsi portati avanti finora da Stallone, che pare voler portare “nel suo mondo” qualcosa del revisionismo di Tulsa King, quasi a misurare, ancora, la tenuta del suo immaginario action, del “suo” Rambo a contatto con un pubblico che, nel tempo, ha equivocato sempre più la sua morale.
Il senso del lavoro di Stallone/Ayer sta forse tutto nel lucidissimo paradosso che regge il film, nel soldato inglese che trova rifugio in America e che si mette al servizio di una famiglia di immigrati, in un crogiuolo (ancora) multi culty che mette in crisi quella stessa granitica narrazione del Great American Hero da cui tutto è partito. A Working Man è la fine di quell’immaginario, che si chiude sotto una giocosa valanga kitsch, tra i cui detriti si indovinano mafiosi usciti da fumetti pulp, punchline fuori dal tempo, scrittura tutta di pancia, da romanzo d’avventura. E a reggere il tutto, sullo sfondo, un racconto che riduce tutto all’osso, all’indagine, alla rapidissima esplosione violenta, al gusto giocoso di immaginare la sequenza action, come a ritrovare le radici di quel linguaggio nell’azione pura al di là di qualsiasi ideologia.
Forse la vera radice del lavoro di Stallone è in un precedente illustre, nel bel Man on Fire di Tony Scott, che attraverso le azioni di John Creasy/Denzel Washington già ragionava sull’obsolescenza di certi modelli eroici, ormai ridotti a parodia dagli orrori dell’allora contemporanea Guerra Al Terrore. Eppure è evidente che quel film, comunque lucidissimo, non aveva lo stesso coraggio di uno Stallone che prende una parte di sé, ne racconta la crisi ma soprattutto fa al suo protagonista l’unica vera domanda possibile: e se quella dell’action hero non fosse altro che una performance?
Titolo originale: id.
Regia: David Ayer
Interpreti: Jason Statham, David Harbour, Michael Peña, Jason Flemyng, Merab Ninidze, Maximilian Osinski, Cokey Falkow, Noemi Gonzalez, Arianna Rivas, Emmett J. Scanlan, Greg Kolpakchi, Kenneth Collard, David Witts
Distribuzione: Warner Bros. Pictures
Durata: 116′
Origine: UK, USA 2025