Abbattere i muri secondo Cinema D’iDEA

Continua la carrellata di opere sociali firmate da donne: battaglie personali, plurali e globali. C’è bisogno di consapevolezza, come mostrano i titoli del festival in corso su streeen.org

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Direttamente dal Cinema D’iDEA, giunto quest’anno alla sua quarta edizione, arrivano diverse storie racchiuse in categorie ben specifiche, raccontate da registe donne. L’apertura per il 2020 è affidata a Citizen Rosi di Didi Gnocchi e Carolina Rosi, un biopic su Francesco Rosi; tra i film presentati però ci sono anche molte produzioni estere, e sono presenti anche categorie legate al cinema femminile iraniano: Iran Libertà e Diritti, con il documentario Invisible di Shirin Barghnavard; Iranian Women Today, in cui si possono trovare opere come All that’s missing di Zeinab Tabrisi. Tra le altre categorie, anche Empowering Women, con La rivolta delle formiche di Antonella Sudasassi Furniss. Ma cos’hanno in comune la caduta del muro di Berlino, la battaglia contro il cancro al seno e la storia di una madre che non vuole un altro figlio?
Per rispondere è bene fare un passo indietro e riflettere sul concetto di “muro” e su cosa rappresenti oggi: un confine, un modo per separare, uno schermo per le proprie paure. La storia ha insegnato con violenza la portata di questi significati. Un muro può essere una barriera fisica atta a dividere in due un determinato gruppo, come lo fu quello di Berlino; ma anche qualcosa di più astratto, come il patriarcato, in cui un marito pone delle barriere tra sé e sua moglie non ascoltandone il punto di vista, o persino una malattia che impedisce di essere sé stessi. I resti del muro di Berlino, come si potrebbe dire anche per quelli dei campi di concentramento, sono lì per ricordare che è accaduto un sopruso, ma che è anche possibile evitare che si ripeta.

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Invisible raggruppa interviste fatte ad artisti da tutto il mondo sulle loro esperienze personali inerenti alla propria nazionalità, mostrando al contempo la costruzione e i resti del muro di Berlino. Le loro voci, in coro, esprimono un concetto unico, ovvero la spiegazione su cosa rappresentasse veramente quel muro, e di cosa è ancora oggi: il nazionalismo. Purtroppo non si può parlare solo al passato, perché anche se il muro di Berlino è caduto, il principio alle sue fondamenta è rimasto; dopotutto è fatto di idee e pregiudizi, non di mera materia. Considerando il come sopravviva ancora nel presente, il concetto di nazionalità rimane una delle barriere più resistenti; non c’è differenza tra il muro di Berlino e quello che sta succedendo oggi nel mediterraneo o quello col Messico issato sotto la presidenza Trumpiana. Usato spesso per scopi politici, l’identità nazionale è una narrativa capace di spingere le masse a fare cose brutte, una sorta di lato più oscuro del patriottismo; il senso comune di appartenenza a un determinato luogo, a un determinato gruppo giudicato come superiore, finisce con l’essere una scusa per discriminare chiunque non ne faccia parte o non ne sia considerato all’altezza.

Dal macigno della nazionalità si passa a quello della sensibilizzazione in All that’s missing. Mahnaz e Jamileh sono due donne cui è stato diagnosticato un tumore al seno: Mahnaz, voce narrante del film, muore dopo una lunga battaglia contro la malattia, mentre Jamileh si riprende e diventa un’attivista intenta all’educare e coinvolgere più persone possibili nella causa, e soprattutto a invocare rispetto per chi vive una malattia del genere; perché non si tratta soltanto di aver paura che una malattia ti porti via la vita, ma anche il tutto ciò che comporta viverla, con le illusioni spezzate, le speranze perdute e le delusioni. Dal pensiero di un figlio che soffrirà e crescerà senza una madre allo svegliarsi senza più avere parti del corpo prima presenti, come i capelli o il seno. Sensibilizzare il cancro significa sensibilizzare tutto il processo che lo accompagna: dalla scoperta alle continue visite vissute nell’ansia all’ospedale gelido, dove tutto sembra una routine; la paura di non poter più fare ritorno a casa; il guardare negli occhi i propri familiari per cercare o dare conforto; il forzarsi a trovare energie per poter partecipare al compleanno di un figlio, sapendo che potrebbe essere l’ultimo. Un calvario, quando lungo, disagevole, freddo, a volte asettico e, in elevata dose, inesplicabile. “Why me?” ripete spesso la voce narrante di Mahnaz. Non potendo rispondere a questa domanda non rimane che trasformarla in un “Why us?”, come fa Jamileh.

Dal calvario del cancro a quello di una madre che rigetta fisicamente l’idea del marito di avere un terzo bambino in La rivolta delle formiche, direttamente dalla Costa Rica in Spagna. Isabel è una donna apparentemente semplice, una mamma amorevole e moglie devota che, per il bene della sua casa, “sopporta” la famiglia invadente e allargata del marito senza mai lamentarsi. La mattina prepara la colazione e veste le sue due figlie per la scuola, di giorno fa la sarta in casa e si occupa di tutte le faccende domestiche, cercando di rendere caloroso un piccolo casolare nonostante le carenze economiche.
Ma nel momento stesso in cui inizia a ricevere pressioni dal marito e dalla famiglia di lui con pretese che abbia un terzo figlio, “magari un maschio stavolta”, inizierà un percorso di analisi che non aveva mai avuto prima, a partire dal suo corpo e la sua mente che iniziano a piccoli passi a rifiutare l’idea; rifiuto mostrato attraverso l’apparizione continua di capelli e insetti che la protagonista vede ovunque e sente sul suo corpo, in un metodo neorealista che cerca di mostrare visivamente, senza effetti speciali, la psicologia di Isabel raccontandone con l’immagine semplice le sue sensazioni. Isabel inizia a rendersi veramente conto di quanti oneri sia costretta a portarsi sulle spalle: è lei quella che si occupa delle figlie in ogni aspetto, compreso l’andare ogni volta a prenderle a scuola; è lei a dover stare in piedi a cucinare mentre gli altri membri della famiglia consumano i pasti; è lei quella che deve compromettere il suo corpo; quella che sa dove sono i piatti da cucina; quella che nonostante tutto questo deve anche lavorare e mettere il ricavato nella scatoletta comune senza mai trarne benefici. È quindi senziente che un altro figlio non solo continuerebbe ad affossarla sempre più sul piano economico, ma anche su ogni altro aspetto della sua vita. Si rende conto di volere di più: una propria lampadina, un vestito di una buona stoffa, una serata di festa, di poter scegliere per sé stessa. “La rivolta delle formiche” perché si tratta di una rivolta di chi si pensa sia naturale vada sfruttato e debba lavorare senza mai chiedere nulla; si tratta di trovare il coraggio di dire al proprio marito di non volere un altro figlio, una presa di posizione vista come atto liberatorio.

All that’s missing

Quindi cos’hanno in comune la caduta del muro di Berlino, la battaglia contro il cancro al seno e la storia di una madre che non vuole un altro figlio? La consapevolezza. L’essere coscienti di ciò che è stato perché lo è stato e perché lo è adesso. Essere coscienti significa avere in mano la possibilità di abbattere un muro: fisicamente, con le gru e le pale; moralmente, diventando la voce dei malati oncologici; o personalmente, lottando per sé stessi.

Documentario, il primo, che indaga su un evento del passato usando le testimonianze che in un certo senso sono anche odierne, monitorando e filmando i resti del muro di Berlino, diventato luogo turistico – proprio com’è accaduto nei campi di concentramento, con la moda dei selfie. Sembra quasi che la regista, pur senza accennarlo a parole, con quelle poche immagini voglia proprio portare all’attenzione generale il come la popolazione lo tratti come un problema del passato, come se fosse tutto finito, quando purtroppo non è così; lo spiega accentuando le riprese con una musica risonante, focalizzandosi sul “monumento” imponente e nerboruto, cercandone la radice. Documentario, il secondo, che usa l’immagine, le carrellate, la musica e il voice over per raccontare le sensazioni che si provano ad affrontare una malattia come il cancro: la solitudine, l’ospedale, il surreale, la freddezza; altera così il movimento a immagini di vita reale, che guardano fisso nello schermo, lo trapassano e trasmettono il grosso cruccio che hanno sulle spalle. Una storia, quella di Isabel, messa in scena attraverso i movimenti: la camera segue la protagonista per tutto il tempo; non importa cosa accade lontano da lei, solo il suo essere che si muove, fisicamente e soprattutto mentalmente. C’è l’evoluzione di un pensiero, il conoscere una realtà che non si era mai rivelata prima; c’è un cambiamento che arriva, e chi guarda ne sente la piena potenza anche attraverso lo schermo, lo vede arrivare prima ancora che accada, senza bisogno di parole.

Forse la storia di Isabel non è il più grande manifesto femminista, o capace di smuovere le montagne, ma ricorda che per raggiungere dei risultati bisogna prima passare per la consapevolezza di sé e del mondo circostante – per poi demolire il muro mattone dopo mattone fino alle fondamenta, salvo ripetere lo stesso errore di Berlino, ove la distruzione del muro non ha comunque eliminato il problema che aveva permesso la sua esistenza. E dev’essere tutto immediato, come si capisce dalla storia di Mahnaz e Jamileh, che ricorda che l’attivismo, la spiegazione e conseguente rappresentazione di un disagio, è il primo passo per giungere alla soluzione.

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