Abracadabra, di Pablo Berger

Il film frulla generi e umori, non sempre riesce a trovare la giusta amalgama, ma denota comunque coraggio. Ossia quello di rifunzionalizzare in chiave personale la dilagante estetica del vintage…

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Abracadabra… cosa aspettarsi da un film che allude alla più antica e misteriosa parola “magica”? Del resto: cosa fare dopo il successo internazionale di un film (Blancanieves) che alludeva proprio agli stilemi più originari del cinema (muto)? Insomma: giocare con la magia del cinema per creare alchimie fuori dal tempo è una cosa ormai usuale per Pablo Berger. Interessante regista spagnolo che ci propone qui un nuovo tour de force cinefilo partendo dalla commedia nera almodovariana per poi condirla con umori horror, thriller, soprannaturali, ecc…

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Abracadabra, però, ha un suo punto fermo. Il film parte, pedina, si rabbuia e s’illumina seguendo sempre la sua musa Maribel Verdù – attrice che da Segreti di famiglia di Coppola a Il labirinto del fauno di Del Toro sino allo

stesso Blancanieves, riesce sempre a creare connessioni originarie tra il suo volto e l’inquadratura – nei panni di Carmen. Una donna che tenta di risvegliare l’amore con il marito Carlos, ma che si scontra con l’inerzia della vita (la televisione, il calcio, i rotocalchi, la periferia della metropoli Madrid) e con una “anestesia mentale” che Berger sonda con piglio ironico alla Woody Allen. Si perché la stramba famiglia partecipa a un matrimonio nel quale un mago ipnotista sottopone Carlos a una seduta presto fallita. In realtà quell’ipnosi apre un varco nella sua mente dove uno spirito errante – Alberto, un pluriomicida schizofrenico morto nel 1983 –  si intrufola impossessandosi dell’uomo. Una serie di gag, drammi, equivoci, situazioni grottesche e surreali seguiranno…

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E allora: se le referenze cinematografiche del film sono più che scoperte – da Che cosa ho fatto io per meritare questo? di Almodovar a Taxi Driver di Scorsese, da Profondo rosso di Argento a La febbre del sabato sera di Badham, e si potrebbe continuare a lungo – il tutto viene però amalgamato con l’originale sguardo registico di Berger che continua a sperimentare con le immagini (i colori, i formati, i supporti) e con le favole archetipiche. Le riflessioni sulla crisi di coppia come metafora della crisi identitaria della società spagnola, pertanto, deragliano costantemente su piani e situazioni narrative imprevedibili. Il film frulla generi e umori, non sempre riesce a trovare la giusta amalgama (qualche caduta di stile c’è eccome), ma denota comunque un certo coraggio. Ossia quello di rifunzionalizzare in chiave personale la dilagante estetica del vintage (il confronto tra The Artist di Hazanavicius e Blancanieves, del resto, aveva già segnato un punto a favore di Berger…) concedendo paradossalmente allo spettatore una esperienza cinematografica “nuova”. Insomma, tra alti e bassi, è uno sguardo mai banale quello di Pablo Berger.

 

Titolo originale: id.

Regia: Pablo Berger

Interpreti: Maribel Verdù, Antonio de la Torre, José Mota, José  Maria Pou, Quim Gutiérrez

Distribuzione: Movies Inspired

Durata: 96′

Origine: Spagna/Francia/Belgio 2017

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