ACAB – La serie, intervista a Flavia Leone
La giovane attrice, volto del teen drama Diari, è ora su Netflix con la serie incentrata su un gruppo della celere di Roma, dove interpreta la figlia di Adriano Giannini. L’abbiamo intervistata

In occasione dell’uscita su Netflix di ACAB – La serie, sequel dell’omonimo film di Stefano Sollima (qui in veste di produttore) e diretta da Michele Alhaique, abbiamo incontrato una delle attrici protagoniste, Flavia Leone, per parlare della sua esperienza sul set.
Flavia tu sei giovanissima ma hai già collezionato esperienze e ruoli interessanti. In particolare sei un volto noto del teen drama Diari, in cui interpreti Livia, un’adolescente sportiva, appassionata e perfezionista. In ACAB ti sei misurata con un ruolo completamente diverso, molto distante dal personaggio di Livia. Sei Emma, la figlia dell’ispettore Nobili (Adriano Giannini), una ragazzina che subisce violenza fisica e psicologica al punto da tentare il suicidio… Un ruolo forte, di cui a mio avviso sei stata perfettamente all’altezza. Come ti sei preparata?
Innanzitutto grazie del complimento! Sono stata fortunata a poter interpretare questo ruolo. Livia è appena adolescente… Per molti aspetti del carattere e per lo stile di vita mi assomiglia molto e questo ha agevolato la mia interpretazione, che è stata comunque difficile essendo la prima in un ruolo da protagonista. La sfida per rendere credibile Livia era trovare l’ingenuità, la spontaneità, l’inesperienza di una dodicenne alle prese con i problemi di quell’età. Con Emma è stato diverso, mi serviva una preparazione mirata e attenta. Emma non è “simile o diversa da me”, è una ragazza legata ai suoi genitori che subisce violenza proprio dal primo ragazzo con cui si approccia a una relazione. Il trauma copre tutto ed Emma non si vede più. Dovevo restituire tutto il suo dolore, che deriva sia dalla delusione personale che da quella che crede di aver provocato alla sua famiglia. Lavorare con professionisti come quelli che ho avuto accanto è stata un’opportunità unica e straordinaria. Entrare nel personaggio guidata da loro – regista, attori, acting coach (Mauro Lamanna), psicologa – è stato un viaggio indimenticabile.
Quello della violenza sulle donne è un tema molto sentito e la serie richiama l’attenzione sulla dicotomia tra violenza visibile e violenza subdola attraverso la vicenda di Emma, ma anche attraverso la vita di Marta, interpretata da Valentina Bellé, vittima di un marito violento. Anche Emma alla violenza subita da quello che credeva un suo amico prova a trovare una “soluzione”. La violenza di genere, secondo studi recenti, è diffusissima tra gli adolescenti: uno su cinque non riconosce la tossicità di una relazione sentimentale né ha gli strumenti per distinguere l’amore dal possesso, il rispetto dal controllo. Perché secondo te c’é tanta diseducazione alle emozioni tra i tuoi coetanei?
Purtroppo, spesso, una donna che subisce violenza reagisce con poca lucidità perché la paura prende il sopravvento e offusca il buon senso. La reazione di Marta è volta a difendere le potenziali vittime dell’uomo violento che ha avuto accanto nonché padre di sua figlia, e, come spesso accade, per farlo agisce su sé stessa, pensando di eliminare la “causa” di quella violenza, ossia la femminilità. Anche Emma non prende subito coscienza della gravità di quanto subito né assume una posizione di immediata e convinta difesa nei confronti del comportamento violento del ragazzo. Tendere a “normalizzare” comportamenti dannosi, purtroppo, provoca situazioni che non possono che degenerare. Io credo che la violenza di genere non sia molto più diffusa in questa generazione rispetto al passato, forse adesso è più agevole avere consapevolezza di certi rischi e delle possibilità di farsi aiutare, forse c’è più sensibilità. Eppure, l’età in cui si verifica il fenomeno della violenza sulle donne è calata, spesso le ragazze non comprendono appieno i rischi di una relazione non libera. E questo significa che il problema è sulla “visione” delle cose, sulla incapacità di riconoscere quello che si vede, quello che si sente e soprattutto quello che si prova. Sicuramente la diseducazione alle emozioni è un tema che andrebbe affrontato prima di arrivare in ospedale o davanti ai giudici. Se ne dovrebbe parlare in casa, nelle scuole (attraverso l’educazione sessuale) e in tutti gli ambienti di aggregazione, sin dall’età della pre-adolescenza, altrimenti certe convinzioni, ormai maturate, rimangono lì e non se ne vanno. La “normalizzazione” della giusta reazione a un comportamento sbagliato avviene sin da bambini, ecco perché sin dalla tenera età i bambini vanno educati, anche con l’esempio, a non “lasciar passare” gesti o frasi che sembrano innocui ma che invece sono pericolosi germogli di comportamenti tossici futuri.
I protagonisti di ACAB sono celerini del Reparto Mobile della questura di Roma con vite problematiche, esposte alle fragilità quotidiane, talvolta con l’idea di poter “riparare” le ingiustizie della vita secondo un metro che ben conoscono quale quello della forza, della violenza. La stessa Emma, cedendo alle lusinghe della vendetta, fa promettere a suo padre che il ragazzo che ha abusato di lei la pagherà. Qualcuno di loro riesce a salvarsi da tutto quel rigurgito di violenza e sete di vendetta o ne resta vittima?
Le vite problematiche o le fragilità di chi fa un mestiere così difficile sono spesso causate dal contatto quotidiano con la stessa violenza rigurgitata, come una tremenda spirale senza fine. La richiesta di Emma al padre è, sì, causata dalla violenza subita ma anche dal dubbio che il padre stesso le insinua: che non sarà un giudice a “fargliela pagare”. Se una società avesse e rendesse chiaro che la violenza sulla donna non è mai giustificabile, credo che non ci sarebbe desiderio di una giustizia personale, non ce ne sarebbe bisogno.
La serie, come il film omonimo girato da Sollima nel 2012, si apre sugli scontri tra polizia e il movimento NO TAV in Val di Susa, sorto negli anni ’90 in segno di protesta verso la realizzazione delle opere ferroviarie ad alta velocità. Il Tribunale permanente dei Popoli nel 2015 ha pronunciato contro l’Italia una sentenza che condanna la violazione dei diritti dei cittadini della Val di Susa. Qual è il tuo punto di vista sulle tematiche socio-ambientali, tematiche serie e attualissime, verso le quali voi giovani siete da sempre più sensibili degli adulti?
Sono cresciuta in una famiglia dove l’attenzione all’ambiente e l’amore per la natura si vivono nel quotidiano, anche con piccoli gesti quotidiani. La storia insegna che la corsa al progresso ha fatto pagare un prezzo troppo alto in termini di disastri ecologici. Appartengo, poi, ad una generazione che risente e risentirà le conseguenze che questo cambiamento climatico sta portando. Per questo credo che ciascun cittadino che disapprovi opere pubbliche che calpestano la persona e la natura abbia il diritto di farsi sentire, nel modo più efficace possibile, purché non diventi violento. L’obiettivo di ciascuno e della società dovrebbe sempre essere che la violenza non diventi uno strumento di persuasione, a cominciare dalla correttezza e trasparenza delle istituzioni che dovrebbero favorire un dialogo pacifico su questi delicati temi.
Tu sei una liceale che vive a Roma, città complicata, oggi più che mai poco sicura. Ti sarai ritrovata in qualche occasione dalla parte dei manifestanti: hai mai avuto paura, hai mai nutrito pregiudizi nei riguardi di chi ha il compito di tutelare l’ordine pubblico e proteggere l’incolumità dei cittadini?
Ho partecipato ad alcune manifestazioni pacifiche (Friday for Future, Non Una di Meno…) perché c’era un messaggio importante da mandare e perché credo nella forza dell’unione. Non ci sono state occasioni di scontri, non mi sono mai trovata in una situazione degenerata nella quale si può avere paura. In ogni caso, il pregiudizio è sempre il frutto di una conoscenza superficiale dei fatti. In ogni categoria, manifestanti e forze dell’ordine, cittadini e istituzioni, studenti e professori, esiste il bianco e il nero ma ci sono anche tante sfumature. Generalizzare ignorando quest’ultime significa alimentare le divisioni: bisognerebbe invece cercare di comprendere perché chi non sceglie né bianco né nero finisce con l’abbracciare il male piuttosto che sostenere il bene.
Di ACAB si apprezza tutto, la sceneggiatura, la regia, l’interpretazione, il soffermarsi su un tema d’impatto e attualissimo, quasi chiaroscurale che viene affrontato senza moralismi né nette prese di posizione, ovvero il dilemma tra l’uso legittimo o illegittimo della forza. Il regista Alhaique al riguardo dichiara: ”Chiunque appartiene alle forze dell’ordine si trova quotidianamente davanti al tema di rispettare il confine che separa l’uso legittimo della forza dall’uso illegittimo. Penso che lo Stato debba essere rigoroso nel perseguire e punire l’esercizio illegittimo di questo monopolio. Spesso l’idea dell’omertà che protegge è la peggiore condanna per chi fa quel mestiere in modo corretto”. Condividi la posizione di Alhaique?
Per quello che ho appena detto, non posso non essere d’accordo con Michele, regista geniale che ha saputo rendere perfettamente il dilemma delle forze dell’ordine che consiste nel saper riconoscere e rispettare il confine che separa l’azione legittima da quella illegittima. L’ha fatto pesando con maestria i due piatti della bilancia, raccontando i fatti senza filtri o giudizi, utilizzando l’avvolgente densità della fotografia che rende la veridicità del momento, sussurrando tutto il “non detto”. Offre allo spettatore la possibilità di sviluppare un proprio giudizio critico, non condizionato dalla rappresentazione delle storie. Come dice Michele, il ruolo del collega-testimone è cruciale, sia nel prevenire una reazione violenta, sia nel convincere che l’unica strada da percorrere è sempre la verità, quella che la legge dovrebbe imporre, perché l’omertà protegge un collega ma danneggia l’intero corpo.
Nella serie questo emerge, si dà evidenza soprattutto alla solitudine dei celerini che riescono a sentirsi bene solo quando sono tutti insieme…
La poesia di Pasolini su Valle Giulia, che non a caso fa da incipit all’omonimo libro di Carlo Bonini, fa emergere la lotta di classe e il poeta, in un chiaro atto di provocazione, si schiera con i poliziotti, i veri “poveri”, portati a “odiare” per la loro condizione. Chiede agli studenti di prendersela con le istituzioni (la magistratura), con chi arma il braccio, con chi li rende esclusi e non integrati nella società, favorendo le divisioni tra i due gruppi e, quindi, il “compattamento” all’interno della squadra. Mentre parlo mi accorgo che è esattamente quello che emerge in ACAB, un senso di squadra che diventa identitario ma che sfocia in un senso di protezione che porta a varcare i confini della legalità e del buon senso.
Che rapporto hai instaurato sul set con il regista e con i tuoi colleghi, alcuni affermati e d’esperienza come Giallini e Giannini, altri più giovani come Bellé e Gigante?
Il rapporto con il regista, i colleghi e la troupe con cui ho girato è la cosa più bella che mi resta di questa esperienza, già per me straordinaria. Ho avuto l’occasione di poter stare a contatto con tutta la loro esperienza, professionalità, dedizione e anche disponibilità, delle quali ho cercato di fare tesoro. Con Adriano è stato tutto più semplice. Quella che all’inizio era vera e propria ansia da prestazione con lui è diventata ansia di vivere il momento, raccogliendo tutti i preziosi consigli e i rassicuranti sorrisi che riusciva a strapparmi. Anche con Chiara (Daniela) è risultato tutto più spontaneo grazie alla complicità che si era creata. Non ho conosciuto sul set Marco Giallini, Valentina e Pierluigi ma le loro interpretazioni, la loro bravura, hanno contribuito in modo significativo a rendere ACAB un prodotto di grande qualità.
Qual è stata la scena più complessa da girare in termini di performance, intesa come sinergia tra attore e spettatore? Cosa speri Emma abbia lasciato agli spettatori e cosa ha lasciato a Flavia?
Alla complessità delle scene che ho girato ho fatto fronte, oltre che con la preparazione personale, con il fermo proposito di poter essere all’altezza di un pregevole set di professionisti. Se dovessi scegliere una scena che meglio rappresenta la sinergia tra attore e spettatore, intesa secondo questa splendida definizione di Artaud, forse direi quella dell’ultimo episodio, in cui Emma e il padre si guardano prima di lasciarsi il giorno della Vigilia di Natale. In quella scena si poteva parlare solo con le espressioni e quello che contava era lasciare nello spettatore un enorme senso di vuoto e di smarrimento. Spero di esserci riuscita come spero di essere riuscita a lasciare nello spettatore l’immagine di una Emma fragile, che resta aggrappata alle poche ma solide certezze che ha, tra le quali la famiglia, facendo sempre riemergere la forza dalle crepe del cuore. A me Emma ha lasciato tanto, la sua storia, nella sua oscurità, mi ha illuminato con una presa di consapevolezza scomoda ma necessaria.