Addio a Ryuichi Sakamoto. Il maestro che sognava la musica del futuro
L’indimenticabile compositore giapponese si è spento a 71 anni dopo una lunga malattia. Pioniere dell’elettronica moderna, ha scritto partiture memorabili per Bertolucci e Ōshima. Il nostro ricordo
“Prego di poter continuare a creare musica fino all’ultimo momento. Proprio come Bach e Debussy”. Queste parole, espresse da Ryuichi Sakamoto in occasione dell’uscita del suo ultimo album-diario, 12, testimoniano non solo la personalità di uno dei più grandi compositori dell’era moderna, ma un atto di fede: nei confronti dell’arte musicale, così come della vita. Perché l’autore, scomparso sei giorni fa a 71 anni dopo una lunga malattia, ha votato la sua intera esistenza alla sperimentazione, cadenzando ogni momento della sua quotidianità con i suoni di un’espressione estetica mai stagnante o immobile. Ma sempre proiettata al futuro.
Sin dai tempi in cui era un giovane ragazzo “desideroso di vivere all’insegna dell’arte”, Ryuichi Sakamoto si è distinto per un’originalità creativa formidabile, da non collegare al suo solo talento istrionico: ciò che ha reso davvero grande l’autore, la cifra della sua immortalità artistica, è da ritrovare proprio nella capacità di rendere popolari dei generi musicali ancora acerbi o poco sdoganati a livello di cultura di massa. Se la formazione da etnomusicologo gli permette di conoscere e nutrirsi della saggezza estetica dei grandi autori del passato, è la propensione ad intercettare ciò che è costitutivo della modernità ad aprirgli la strada del successo. Insieme a menti altrettanto avanguardiste come il super-produttore Haruomi Hosono e al cantante e percussionista Yukihiro Takahashi – scomparso, anche lui, un paio di mesi fa – forma nel ’78 una band che rivoluzionerà il modo di concepire ed intendere la musica elettronica: la Yellow Magic Orchestra. Il loro album di debutto, un mix di melodie computerizzate, sintetizzatori ed elementi mutuati dalle sonorità funk, permette la creazione di suoni fino ad allora mai codificati, anche grazie all’uso esteso del microprocessore Roland MC-8 su cui, ad esempio, si struttureranno tutte le prime espressioni sonore dei videogame, quando il videoludico (in Giappone, come nel resto del mondo) non si era ancora costituito come industria.
Ma la grandezza di Ryuichi Sakamoto non è da legare solo ai modi in cui ha tracciato le nuove vie del synth-pop. Come per molti dei grandi artisti della seconda metà del Novecento, trova nel cinema – il primo grande amore dell’autore, insieme alla letteratura – la sublimazione della sua espressione artistica. È con Merry Christmas Mr. Lawrence (1983) che la parabola estetica del compositore prende una piega diversa, per entrare definitivamente nei lidi dell’immortalità. Il film, infatti, oltre a rappresentare l’inizio della sua carriera nella composizione cinematografica, ne segna anche il debutto come attore. Ōshima, stregato dal carisma dell’autore, lo scrittura nei panni del violento e represso Capitano Yonoi, affiancandolo – guarda caso – ad un altro artista che in quegli stessi anni stava cambiando i codici della modernità musicale: David Bowie. Insieme, neanche a dire, formano una coppia vertiginosa. Ed è proprio in una vertigine che troviamo il senso del film, e forse della sua musica tout cour: il prigioniero interpretato da Bowie, in faccia all’ennesimo sopruso commesso dai soldati giapponesi, si avvicina a passo lento a Yonoi; resta lì fermo, immobile. Non teme le conseguenze, perché sa che l’uomo che ha di fronte è solo una pedina nelle mani dell’esercito. Lo bacia sulle guance, e scatena nel capitano tutti i sentimenti omoerotici fino a quel momento repressi nell’oblio del machismo; Sakamoto sviene, accompagnato dagli arpeggi onirici della sua stessa musica. Una scena-simbolo, forse un po’ dissonante, ma che restituisce perfettamente la cifra caratterizzante dell’arte del compositore: il senso di vertigine.
Dopo Furyo, la carriera di Ryuichi Sakamoto prosegue a ritmi incessanti. Sempre al cinema Bertolucci lo sceglie per musicare il suo film di maggiore successo commerciale, L’ultimo Imperatore, che porterà il compositore giapponese a vincere nell’88 l’Oscar per la miglior composizione musicale. Per il regista italiano scriverà alcune delle partiture più significative della sua carriera, in particolare quella per Il tè nel deserto (1990) adattato dall’omonimo romanzo di Paul Bowles, un’opera che Sakamoto riscoprirà in uno dei suoi ultimi lavori da solista, realizzato nel pieno della malattia. ASYNC (2017) si apre non a caso con un estratto dal libro in questione: “Dal momento che non sappiamo quando moriremo, pensiamo alla vita come ad un pozzo inesauribile. Eppure tutto accade solo un certo numero di volte, un numero molto esiguo, in realtà. Quante volte ancora avrete l’occasione di ricordare un certo pomeriggio della vostra infanzia? Quante volte guarderete sorgere la luna piena? E nonostante questo, tutto sembra illimitato”. Un passaggio forte, che assume ancora più significato se collocato nel contesto (sonoro, esistenziale, artistico) in cui lo udiamo. Quello di un uomo, che in faccia alla sofferenza più crudele, disinnesca il dolore attraverso la sperimentazione musicale. Per offrire le chiavi della sua anima a chi, ancora ad oggi, è disposto ad accogliere l’invito a celebrare la (sua) vita.
Nulla, allora, può davvero fermare il flusso magmatico di pensieri, sogni e speranze di Ryuichi Sakamoto. Neanche la malattia. Basti pensare che negli ultimi anni, oltre a scrivere un numero altissimo di composizioni – sia per il cinema, come nel caso di The Revenant, Rage (2016) e Love After Love, sia per gli album da solista – è stato impegnato in molte cause sociali, prima fra tutte quella contro il nucleare. Come osserviamo nel meraviglioso documentario Ryuichi Sakamoto: Coda è lo sguardo sul contemporaneo, la volontà di lasciare un mondo migliore alle generazioni più giovani, a dominare ogni afflato espressivo dell’autore nipponico. Di un uomo che sin dalla metà degli anni Settanta, non ha mai tradito sé stesso né tanto meno il suo pubblico. Al punto che, poche settimane fa, annunciava senza esitazione ad una gremita platea che non ci sarebbe stata più occasione di ascoltare la sua musica dal vivo. Il male, per l’appunto, stava prendendo il sopravvento. Ma Sakamoto, in realtà, non è stato veramente sconfitto. Fino all’ultimo respiro, ha continuato a comporre, scrivere e a sfidare le ingiustizie del mondo. Proprio come i suoi amati Bach e Debussy, eterni tra gli uomini grazie all’immortalità della loro arte. Insomma, arrivati a questo punto, a noi non resta che ringraziare Sakamoto per la (grande) musica che ci ha lasciato. E per quella che ancora siamo ansiosi di scoprire. Nel prossimo film di Kore-eda, Monster, avremo l’occasione di incontrare, per l’ultima volta, le sue perturbanti e catartiche note, e dire finalmente addio ad un artista, che in realtà, non ci lascerà mai. Sembra allora giusto concludere questo ricordo con una delle citazioni preferite del compositore: “Vita brevis, ars longa”. È esattamente così, maestro. La vita è effimera, l’arte è ciò che sopravvive. Ti auguriamo un lungo viaggio. Sayōnara, sensei…
La nostra top 10
Furyo (1983)
Le ali di Honneamise (1987)
L’ultimo imperatore (1987)
Il tè nel deserto (1990)
Tacchi a spillo (1991)
Gohatto (1999)
Femme Fatale (2002)
Tony Takitani (2004)
Hara-kiri: Death of a Samurai
Love After Love (2017)