"Adoro la libertà che il mezzo cinema permette". Incontro con Valérie Donzelli


Dopo il successo a Cannes 2011 e Torino, arriva in sala La guerra è dichiarata, secondo film di Valérie Donzelli, di nuovo dietro e davanti la macchina da presa. Nella cornice del Nuovo Sacher, la regista ha introdotto il suo film in un incontro moderato da Vanessa Tonnini, direttrice artistica di Rendez-vous, quest’anno aperto proprio dal film di Donzelli

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La guerra è dichiarataDopo il successo a Cannes 2011 e Torino, arriva in sala La guerra è dichiarata, secondo film di Valérie Donzelli, di nuovo dietro e davanti la macchina da presa. Nella cornice del Nuovo Sacher, la regista ha introdotto il suo film in un incontro moderato da Vanessa Tonnini, direttrice artistica di Rendez-vous, quest’anno aperto proprio dal film di Donzelli.

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Credo che questo film sia il simbolo del meglio del cinema francese contemporaneo. Candidato a 6 Cesar, rappresentate della Francia agli Oscar. Penso che la chiave del successo sia nella spregiudicatezza con cui Valérie Donzelli fa cinema, nel suo modo di raccontare la storia, ispirata alla sua vicenda personale. Quanto il diario che teneva in quel periodo l’ha aiutata in questo processo?

Quando ho scritto il diario era per ricordare le cose da fare, gli appuntamenti con i dottori per esempio, e registrare la progressione della malattia. Il film però non vuole raccontare la malattia, ma questa coppia di innamorati e come loro si rapportino con essa. In questo, il diario ha aiutato a dare realismo, è stato un riferimento costante.

La sua è una forma personale di cinema, dissacrante. Fa tutto quello che di solito viene detto di non fare nelle scuole di cinema come le tre voci off che raccontano la storia, qualcosa di vietato. Oppure l’uso dell’iris. E ciò dà grande forza autoriale che dissacra la forma cinema proprio perché non ha riferimenti, ma vuole fare cinema. Da dove nasce tale ispirazione?

Proprio perché non ho mai fatto scuole di cinema, imparo andando oltre, nel fare le cose. Poi ho capito una cosa: io sono attrice e regista al tempo stesso e ciò porta a uno sdoppiamento. Nel momento in cui sono regista devo mettere da parte l’attrice e viceversa, ma ho imparato a lasciar andare alcune cose. La recitazione, poi, ha dato energia, ritmo al film che diventa così un film vivente, che è ciò che volevamo fare. Adoro la libertà che il mezzo cinema permette. Sì, ci sono regole da rispettare, ma sono le mie. È stata un’esperienza liberatoria.


Valérie DonzelliNel film racconta la sua storia. È stato difficile riviverla mentre faceva il film?

Nel realizzare il film non ho avuto la sensazione di rivivere la mia storia, ma di costruire una storia diversa. È una storia personale, ma tutti i registi mettono qualcosa di personale nei loro film quindi la differenza sta nel cosa noi ne facciamo del nostro vissuto. Per me non si è trattato di rivivere la storia, ma condividerla con tante persone, con il pubblico. Come dice Jérémie [Elkaïm, sceneggiatore e attore nel film], abbiamo con questo film eliminato il brutto della nostra esperienza e tenuto il lato positivo.

Nel film non ha mantenuto i veri nomi, ma li ha cambiati con altri referenziali come Romeo, Juliette e Adam. Perché?

Abbiamo impiegato un po’ di tempo per scegliere i nomi, ne abbiamo discusso tanto. Volevamo scegliere dei nomi di amanti famosi, della storia o letteratura. Eravamo partiti da Paul e Virginie, ma alla fine ci siamo detti “Perché non Romeo e Giulietta?”. Sicuramente questa scelta ha portato i personaggi a parlarne, rifletterci e scherzarci tra di loro e alla fine s’innamorano follemente. Scelti i nomi, i personaggi si sono allontanati da noi, la storia è diventata universale. Lo stesso vale per Adam, il primo uomo. I personaggi diventano così un uomo, una donna e un bambino, delle icone per una storia universale.

Quale è stata la reazione di suo figlio verso il film? Quanto è stato coinvolto?

Prima di girare ne abbiamo parlato molto con lui, gli abbiamo detto che era un film solo ispirato alla sua storia, ma non era la sua storia, era un film sulla coppia. Lui non ha reagito male. E poi quando sei una donna che fa film e ha un figlio, sei abituata a mescolare le cose, il privato e il lavoro, come per tutte le donne per lavorano. Quindi quando faccio un film, per lui è normale, fa parte della sua vita quotidiana. Per quanto riguarda l’attore che avrebbe interpretato Adam a 8 anni, non avevamo ancora deciso ed è stato lui a proporsi. Alla fine è stata una scelta coerente. E poi, non lo dico perché è mio figlio, ma ha una presenza scenica importante. Ha partecipato a tutte le fasi della lavorazione, si interessava e la sera portavo a casa materiale dal set e i giornalieri per farglieli vedere, però non volevamo che vedesse subito il film per evitare che sostituisse i suoi ricordi con la finzione. Poi però quando i suoi compagni di scuola l’hanno visto e gli facevano domande, abbiamo rotto questa regola ed è andato a vederlo al cinema con la nonna. Quando è tornato a casa mi ha detto “Sì, è bello”.

Dal film emergono due sensibilità diverse che s’incontrano. È come se questo film fosse un figlio. Come è andato davvero il processo di scrittura? Chi ha scritto cosa?
 
È stato davvero così per noi. Mi piace il paragone con la gestazione perché, come un bambino, la sceneggiatura ha bisogno di tempo. Poi il film esce e non appartiene più a te, ma al pubblico. Il film è figlio delle nostre sensibilità: Jérémie è analitico e razionale, io sono impulsiva ed emotiva. Il nostro è un modo di lavorare fuori dagli schemi. A volte scriveva lui delle scene, altre le scrivevamo a quattro mani o semplicemente ci venivano chiacchierando o improvvisando perché non si smette mai di parlare del film. Jérémie è bravo ad analizzare l’aspetto umano e siamo stati attenti a tutto ciò che ci circonda perché tutto può essere materiale per il film.

La guerra è dichiarataMoltissime scene sono state girate negli ospedali. Tecnicamente come ha fatto? E i medici hanno collaborato?
 
La condizione di base per fare il film era girare in ospedali veri e il tragitto è quello di tutti i genitori in Francia. Prima sono a Marsiglia, poi vanno a Parigi, dove c’è il centro migliore per il trattamento di questa malattia. Per la lavorazione, non è stato complicato. Ho ricontattato i medici che avevano seguito mio figlio, con cui ero rimasta in contatto, e mi hanno aiutata. Era però necessario che fossimo in pochi a girare, molto discreti, per non interferire con l’andamento dell’ospedale. Alla fine, eravamo solo dieci e le attrezzature non erano ingombranti visto che abbiamo usato una luce semi-naturale e una macchina fotografica Canon con obiettivi cinematografici, che si prestava all’effetto che volevo ottenere. Solo per la scena finale a rallentatore abbiamo dovuto girare in 35mm. Abbiamo impostato il piano di lavorazione adattandoci ai ritmi dell’ospedale e abbiamo avuto grande sostegno. Alla fine, abbiamo proiettato il film negli ospedali ed erano tutti contenti. Erano anche interessati a capire il punto di vista del malato e della famiglia, cosa vuol dire per loro l’ospedale. E poi il film gli rende omaggio.
 

Ho trovato molto interessante la scena in cui Juliette e Romeo cantano l’una all’altra. Come ha scelto questa canzone e tutte le altre della colonna sonora?

La canzone l’ho scritta io e poi è stata messa in musica. Le altre sono state un’idea di Jérèmie che appare nei titoli come Consulente artistico e musicale. Me ne faceva sentire un pezzo e io iniziavo a immaginare la scena, come girarla. È iniziato con le Quattro stagioni di Vivaldi. Ero a passeggiare con il mio iPod e l’ho sentita e ho immaginato una scena. Quindi le canzoni sono state tutte scelte prima e hanno fatto del film una messa in scena musicale.

 

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