Agnès Varda, une femme du siècle

Va in cielo con i palloncini di JR. Come un volo il nostro personale ricordo di Agnès Varda, scomparsa a 90 anni venerdì scorso

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Possiamo confessarlo. La credevamo immortale. Come Manoel de Oliveira. Soprattutto dopo l’ultimo film presentato alla Berlinale, Varda by Agnès. Non un testamento. Ma proprio il contrario. Come scriveva Aldo Spiniello “a metà tra la confessione pubblica e la lezione di cinema”. E, quindi, quasi un nuovo inizio. Come se, ripercorrendo tappe della sua carriera, si lasciasse alle spalle tutto il suo cinema di oltre 60 anni. E ripartisse da zero.

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Del resto, gran parte della filmografia di Agnès Varda, è segnata da nuovi inizi. A cominciare dal suo primo mediometraggio, La pointe courte (1954). Philippe Noiret protagonista e Alain Resnais al montaggio. Un uomo e una donna. Una giovane coppia con il loro problemi. Nel villaggio di Sète, un porto del Mediterraneo dove la cineasta ha nascosto la sua infanzia. E qui parte subito il tratto autobiografico. C’è sempre un pezzo

della propria vita nel cinema della Varda. Forse per questo, La pointe courte è stato visto come un’anticipazione della Nouvelle Vague. E la cineasta come uno dei nomi di punta del movimento. Però dalla parte rive gauche. Assieme a Resnais e Chris Marker. E poi ne è diventata la ‘nonna’. Come era stata definita in occasione del centenario del cinema, Les cents et une nuits (1995). Ancora il cinema sulla memoria. Il cinema come eredità. Visto attraverso il filtro di Michel Piccoli, Monsieur Cinéma. Ma l’insuccesso è stato totale. “Alcuni miei film sono andati bene, altri sono stati un disastro” aveva detto proprio la regista in Varda by Agnès. E qui emerge un’altra sua identità. Quello della produttrice. Che ha sempre voluto controllare la sua opera. Indipendenza, sperimentazione e commercio. Sin dagli anni ’50. Quando aveva fondato Ciné Tamaris. Ha avuto un grande sensop degli affari. Controllando non soltanto i suoi film, ma anche quelli del marito Jacques Demy, morto nel 1990.

Già. Jacques Demy. “Que reste t-il de nos amours” cantava Charles Trenet. e quello tra i due registi è un amore senza fine. Si l’autobiografia. Garage Demy (1991), girato l’anno dopo della morte di Demy, non era neanche quello un testamento. Anzi, si parte all’indietro. E viene mostrata la sua adolescenza irrequieta. Come un commosso omaggio. Ma entrano in gioco anche i suoi colpi di fulmine: il cinema e il musical. Alternando bianco e nero e colore, mostra tutte le variazioni della sua vita. È un film della Varda. Ma sembra un film di Demy. Che la moglie ha girato seguendo alla lettera i suoi appunti. Ma mettendo dentro anche parte della loro storia. Quando lei non era ancora entrata nella sua vita. E poi la vita contnua. Ancora con gli omaggi dei documentari Les demoiselles ont eu 25 ans (1993), su Les demoiselles de Rochefort (1967) e L’univers de Jacques Demy (1995).

Il tempo segna una continua cicatrice. Indelebile. Non la memoria, ma la vista. E tutta la mutazione di quello sguardo fotografico. Dagli inizi al Théâtre National Populaire. Ma soprattutto sui volti. Come quello di Cléo, la cantante in attesa di sapere il responso delle analisi per scoprire se è malata di cancro in Cléo dalle 5 alle 7 (1962). Sui suoi occhi scorre il tempo in diretta dell’azione che corrisponde con quello del film. Dove la musica – la canzone Sans toi – entra come un violento squarcio che apre alla vita. Ma anche quello di lei stessa e e l’artista JR in Visages villages (2018). Un collage fotografico nel movimento del road-movie. Gli occhiali da sole. La vista, debole. Ma una percezione sempre unica. Dove ogni immagine è già al passato. Già un secondo dopo. “Dopo ogni incontro per me è come l’ultima volta” aveva detto proprio la Varda in quel film. Eppure è proprio il suo cinema tutti i suoi scatti necessari. Come quelli su Jane Birkin in Jane B. par Agnès Varda (1987). Ancora decisivo l’occhio di chi guarda, che trasforma l’attrice. Ancora in un collage, un film in divenire. Che poi prenderà apparente forma fiction l’anno dopo con Kung Fu Master (1988). Sempre con la Birkin, sua figlia (Charlotte Gainsbourg) e suo figlio (Mathieu Demy). Quasi con le forme di un documentario familiare che poi dicenda qualcos’altro. e il videogioco del titolo. Tutta l’attenzione della regista di nuovi formati, nuovi sguardi. Come la sua presenza nei social in questi ultimi anni. Ma uno di quelli più potenti è con Sandrine Bonnaire in Senza tetto né legge (1985), Leone d’oro al Festival di Venezia. Momà, la solitudine e la libertà. Quasi l’altra faccia del suo essere cineasta. Il vagabondaggio come nomadismo post Nouvelle Vague. Dove il movimento della protagonista diventa, come per magia, il movimento del film.

Ci sono poi tutte le declinazioni sentimentali ed esistenziali. La felicità e il tradimento di Le bonheur (1965, uscito in Italia con il titolo Il verde prato dell’amore), un saggio sull’uso del colore ancora oggi accecante, Gran Premio della giuria alla Berlinale; la realtà e l’immaginazione che si mescolano in Les creatures (1966); l’amicizia, la vita, il cinema al femminile, la militanza di L’une chante, l’autre pas (1977). Ed è proprio la dimensione politica che entra direttamente in gioco in Black Panthers (1968), il documentario di mezz’ora sulle Pantere Nere realizzato in bianco e nero o l’anno prima nel collettivo Lontano dal Vietnam (1967). E lo è ancora di più uno dei suoi vertici, Les glaneurs et la glaneuse (2000). Film anche ambientalista ma non solo. Sul consumismo, sugli sprechi, ma non solo. Sulle persone che raccolgono materiali e quelli che li utilizzano come recupero. In città, in campagna, al mare, ma non solo. Che entra ancora in gioco con la sua vita, i ricordi, gli accenni al cinema delle origini con Marey. Un viaggio ininterrotto. Dentro la sua vita. Dall’album di quartiere di Daguerréotypes (1976), prima di un altro ritorno su una spiaggia, Les plages d’Agnes (2008). Ancora una volta, tutto il suo cinema come un continuo divenire. Per i suoi 80 anni. Dieci anni prima di Varda by Agnès. Niente bilanci, niente testamenti, appunti. Solo voli sul tempo liberi come tutto il suo cinema. Tutta la sua storia. Tutta una vita. Tutti i frammenti, velocissimi, di quell’emozionante video del volo in cielo con i palloncini creato proprio da JR. Quelli di une femme du siècle. Di quello scorso. Di questo. Del prossimo.

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