Spielberg cattura i sensi e li immerge in un mélo definitivamente “classicista” sommergendo i potenti effetti della Industrial Light & Magic in un film intimo, che brucia di “amore necessario”, con il volto e il corpo di un grande Haley Joel Hasment
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“A.I. – Intelligenza artificiale” era un vecchio progetto di Stanley Kubrick. Questi comprò, alla fine degli anni Settanta, i diritti di un racconto del famoso scrittore di fantascienza Brian Aldiss – intitolato “Super-Toys Last All Summer Long” pubblicato su Harper’s Bazaar nel 1969 – e pensò di portare questa storia di un robot bambino che cerca di farsi amare dalla madre umana sul grande schermo. Nello stesso periodo Kubrick conobbe Spielberg e pensò che la vicenda era più vicina al cineasta di “E.T.” e “I predatori dell’arca perduta”. Propose allora a Spielberg di essere il regista del film. Kubrick si sarebbe ritagliato invece il ruolo di produttore. A causa di numerose vicissitudini il progetto si è arenato per oltre vent’anni prima di essere realizzato. Eppure “A.I. – Intelligenza artificiale” non ha proprio l’aria di un vecchio progetto riveduto e corretto ma è un film di una modernità sconvolgente. Non si sa quanto sia necessario chiedersi quanto ci sia di Kubrick nel film di Spielberg o del cinema spielberghiano in un’opera che, originariamente era di Kubrick. Certamente dentro “A.I. – Intelligenza artificiale” convivono in maniera esemplare le forme ludiche di “Jurassic Park”, le atmosfere nere di “1941” e “Il mondo perduto” con lo straordinario umanesimo di “E.T.” Al tempo stesso, sono presenti quella commistione tra follia e gelosia di “Shining” e “Eyes Wide Shut” con la carnalità della macchina simile ad Hal 9000 di “2001: Odissea nello spazio”. Ciò che colpisce del film di Spielberg è il segno di un cinema che si rinnova e resta uguale coerentemente a se stesso, che lascia cronenberghianamente pulsare le macchine come gli organi (l’operazione chirurgica a David dopo che aveva cominciato a mangiare la verdura mentre il suo corpo non era predisposto per la digestione), che crea le coordinate urbanistiche di una “metropolis” espressionista con la luce dark/funerea di Kaminski riconducibile al miglior cinema fantastico dell’ultimo ventennio. “A.I- Intelligenza artificiale” vive sul contrasto (l’aspirazione di corpi non-vivi come quello di David ad essere umano circondato invece da ambienti freddi, gelidi), sulla tensione di un’ambiguità appena accennata (David che ferisce la madre mentre cerca di tagliarle i capelli o il ragazzino che finisce involontariamente in piscina con il fratello), ma soprattutto sul Tempo che, in maniera sublime, plasma i personaggi facendoli rivivere su molteplici e immutabili reincarnazioni. Nella potente macchina narrativa tipica del cinema del cineasta statunitense, Spielberg cattura i sensi e li immerge in un mélo definitivamente “classicista” che gioca, come in Cukor di “Volto di donna”, sull’esplicitazione volutamente eccessiva dei sentimenti, su una ronde senza tempo che rende David più umano degli umani, che lo mette continuamente in contatto con l’affettività del metallo di Gigolo Joe (Jude Law) o con la brutalità carnale della fiera. Spielberg sommerge i potenti effetti della Industrial Light & Magic in un film intimo, necessario, che brucia di “amore necessario”, con il volto e il corpo di un grande Haley Joel Hasment (il giovanissimo protagonista de “Il sesto senso”) che consuma spazi non propri in un percorso mistico, di natura quasi religiosa, una traiettoria di peccaminosa redenzione come in “l’ultima tentazione di Cristo”.
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