Ailleurs partout, di Isabelle Ingold e Vivianne Perelmuter

Al cinema Detour il 9 aprile per il’On the Road Film Festival, un documentario sperimentale che si concentra su un rifugiato proveniente dall’Iran in Inghilterra, osservato dall’occhio delle CCTV

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Quell’altrove che è anche ovunque in Ailleurs Partout di Ingold e Perelmuter è quell’occhio macchinico delle telecamere di sorveglianza, che all’apice della tautologia può essere considerato il simbolo principale della società della sorveglianza che si stringe attorno a noi. Una presenza che, grazie alla sua costanza, ci ha abituati a coesistere con la possibilità che il nostro vissuto scivoli in abissi di pixel neri. A precipitare non sono tanto storie, ma frammenti che danzano in un caos così radicale da far apparire sullo sfondo, quasi fosse un fantasma, un ordine. Quest’ultimo si intravede, cristallizzato in Ailleurs Partout, nella figura di un rifugiato, scappato verso l’Inghilterra dalle persecuzioni religiose in Iran.

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Non si può, comunque, dire che Ailleurs Partout “racconti” la sua storia. Non sembrerebbe trattarsi nemmeno di una ricostruzione, quanto piuttosto un accumulo attorno a quel centro di gravità che non si trasforma mai in centro narrativo. Le linee di forza, secondo le quali si muove l’eterogeneo materiale, seguono traiettorie inumane alla ricerca di una risonanza diffusa. I diversi colloqui burocratici con gli uffici di immigrazione, riprodotti in maniera che sia lo stesso protagonista a rispondere alle domande poste da sé stesso accrescono ancor di più la sensazione di trovarsi all’interno di una spirale che punta verso recessi ignoti e inumani.

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L’empatia rimane solamente sotto forma di traccia che sa di imperfezione. Tutto è freddo, meccanico, con il ritmo rallentato che sembra alludere a letture indecifrabili senza una chiave di decrittazione. Lo sguardo obliquo, deterritorializzato che passa attraverso le telecamere a circuito chiuso sembra essere l’ermetica operazione di un’intelligenza altra più che una risposta al desiderio represso di viaggiare in tutto il mondo del protagonista. Nell’accostamento dei singhiozzi della madre, nella telefonata registrata, con le immagini di una cucina giapponese, in cui una cuoca scoppia a piangere, non sembra avere senso cercare una metafora: sembra piuttosto una tappa del processo di auto-apprendimento di un’Intelligenza Artificiale.

Nella stessa stagione cinematografica in cui il linguaggio dell’animazione libera il genere documentario dalla ripresa diretta della realtà in nome di un iper-realismo emotivo, Ailleurs Partout percorre la stessa strada in direzione opposta. Negli stessi dispositivi preposti a controllare la realtà sembra albergare una volontà propria con annessi e nebulosi obiettivi. Che differenza fa che ci sia uno sguardo umano a contemplarla?

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3
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Il voto dei lettori
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