Alain Resnais, le strutture flessibili del cinema
Ci ha lasciati Alain Resnais. Ci mancherà la sua voglia di sperimentare, il suo cinema così impeccabile ed elegante, originale e spettacolare come quando si guarda il meraviglioso che risiede nei labirinti della coscienza. Ha creato un cinema fatto di strutture permeabili nelle quali dominano le sue ossessioni: l’amore, il tempo, la memoria e quindi la vita con le sue mille possibili soluzioni.
È stato un autore complesso, a volte complicato, che ha utilizzato il cinema come strumento, ma proprio come utensile, per entrare dentro i mondi sconosciuti della narrazione, delle combinazioni temporali, delle anomalie visive, elaborando, sempre, attaverso il cinema, universi impossibili, piani narrativi non plausibili, soluzioni e incastri bizzarri. Alain Resnais ha sempre rifiutato la linearità narrativa e il suo cinema è forse tra i meno raccontabili, tra i meno spettacolari, se per spettacolo si intende la superfetazione eccezionale della narrazione, il colpo di scena o la magnificenza scenografica. Ma il suo resta un cinema pur sempre spettacolare se vogliamo immaginare che il meraviglioso risieda dentro i labirinti della coscienza, dentro le volute (anti)narrative che spettacolarizzano l’impossibile rendendolo plausibile. Nel film che lo scoprì al mondo Hiroshima mon amour (1959), Resnais si rivela cineasta originale e la sua opera, apparentemente sulla memoria, mostra la sua parte migliore proprio in quella particolare struttura che che sembra volere decostruire il presente attraverso l’ingresso del passato. Film sulla memoria, ma soprattutto film sulla presente condizionato dal passato: il cinema è l’arte di giocare col tempo, sosteneva l’Autore francese. Da subito si comprese che il suo lavoro così autenticamente moderno avrebbe dato ancora molti frutti oltre a quelli del primo film che si avvaleva anche della scrittura di Marguerite Duras. È proprio dal gioco del tempo che nasce L’anno scorso a Marienbad (1961), opera
A seguire le tracce del suo autore il cinema di Resnais si materializza in una realtà che appartiene alla stessa vita dei suoi personaggi e questi altro non sono che i portatori della visione di questa speciale realtà. Ho sempre avuto l’impressione di fare film realisti: in L’anno scorso a Marienbad la camera era nella testa dei personaggi. In Muriel attorno alla loro testa. In La guerra è finita ho voluto che la camera fosse insieme “dentro” e “attorno”. Affermazioni depistanti e quindi nell’ottica resnaisiana assolutamente illuminanti per un cinema che ricerca verità sensoriali, più che tangibili che si articola in una moltiplicazione di significati che spingono tutti a trovare il senso profondo della percezione del vero attraverso il ricorso ad un simulacro di narrazione, consistendo, invece, lo sviluppo diegetico in altre e ben più ardite strutture che non siano quelle temporali e spaziali ben riconosciute. Non si tratta solo di destrutturazione temporale si tratta, piuttosto, di una confusione temporale che attualizza il passato rendendo articolato e reinterpretabile il presente. Quindi Resnais sembra davvero costruire temporalità estranee, condensabili nello sviluppo che solo il cinema consente di realizzare.
Le complicazioni visive ulteriori di Resnais trovano un’altra strada in una fantascienza dal vago sapore borgesiano come quella che il regista costruisce, traendolo da un racconto di Jacques Sternberg, per Je t’aime, je t’aime – Anatomia di un suicidio. Claude Ridder vuole rivivere un solo minuto del proprio passato e si offre per un viaggio all’indietro nel tempo. L’esperimento fallisce e Ridder tra passato e presente si inconterà con il momento del proprio suicidio. Un film sulla possibilità di rigenerazione che si trasforma in un vero e proprio ottovolante temporale in cui la confusione sembra colorarsi di fantastica esistenza. Un film sfortunato, uscito nel maggio ’68 e quasi sotratto alla visione per la sua inaccessibilità e a causa dei fatti di cronaca di quell’anno che fecero sospendere anche il festival di Cannes.
Un cinema quindi geneticamente polisemico che risente di forti influenze teoriche ed anzi è costruito proprio su queste fondamenta che riesce però a trasformarsi pur, paradossalmente, accentuendo, se possibile, queste sue caratteristiche concettuali. Ma porrà in essere questa graduale metamorfosi, in cui troverà meno spazio una certa serioosità di intenti a favore di un tono scanzonato e divertito, mantenendo inalterato ogni rigore speculativo e continuando ad utilizzare il cinema come dispositivo scientifico, strumento mentale prima che spettacolare.
La cesura di questi risultati è forse costituito da Stavinsky il grande truffatore del 1974. interpretato con la solita simpatica cialtroneria da Jean Paul Belmondo, il film narra degli ultimi giorni del grande truffatore e creatore di un piccolo impero, Alexander Stavinsky. Apparentemente un film che ripiana le asperità della sua precdente produzione, ma che in effetti costituisce un altro salto dentro quella sperimentazione così congeniale all’autore francese. Resnais lascia immutati i cardini della sua poetica e stravolge soltanto la forma attraverso la quale pratica la sue sperimentazioni costruendo un film su un personaggio (Stavinsky) per raccontare anche la storia di un altro (Trotsky) e se è vero, così come afferma Paolo Bertetto nel suo Castoro dedicato a Resnais, che questo è un film che rifiuta la definizione di genere, la collocazione in uno spazio strutturalmente predeterminato è anche vero che le parole dello stesso regista ci conducono a meglio entrare nel suo clima quando spiega: Si tratta, in breve, di un film sulla felicità. Più esattamente sulla sua perdita, e questo forse aiuta a comprendere meglio la cosa.
Con Providence del 1977 Resnais gira in Inghilterra per raccontare quella che forse sarà l’ultima notte di uno scrittore che rivive gli affetti familiari perduti che ritroverà al mattino per festeggiare il suo 78esimo compleanno. Film dal sapore funereo anche se Resnais ne parlò sempre come di un film sulla volontà di non morire.
La curiosità scientifica di Resnais lo porta a conoscere e appassionarsi alle teorie dello scienziato e filosofo anticonformista Henri Laborit. Nacque così nel 1980 Mon oncle d’Amerique, apologo scientifico sulle teorie del condizionamento elaborate dallo stesso scienziato. Attorno alle vite di tre personaggi Resnais, utilizzando i suoi protagonisti come cavie di laboratorio, costruisce una commedia originale, che pone al centro i comportamenti umani condizionati dalle inibizioni.
C’era da immaginarselo che prima o poi il regista francese si sarebbe fatto portare a spasso nel tempo dalla sua vena artistica particolarmente creativa. In quelche modo sarebbe successo nel 1983 con La vita è un romanzo. Tre storie si intrecciano nello stesso luogo, un castello delle Ardenne, un film gioioso nella sua enigmatica originalità che ci parla d’un amore utopico, del ritorno del tempo, di una seconda possibilità di vivere la nostra vita. Un geometrico teorema sulla felicità perduta.
Sembra aprirsi per Resnais una nuova stagione quella più matura, dove gli interrogativi sono più legati ad una contingenza immediata, ne è prova il film successivo L’amour à mort, storia di due coppie che rappresentano l’una l’amore razionale e l’altra l’amore romantico. Un intreccio in 52 quadri in cui il tema del film è l’eternità dell’amore, la natura del suicidio e il rapporto eterno tra amore e morte.
Melò del 1986 ripropone gli attori che accompagneranno con alterne presenze anche i film successivi del maestro francese. Pierre Arditi, André Dussolier, Sabine Azéma danno vita ad un trio amoroso in cui prima o poi la protagonista femminile sarà costretta a scegliere e sceglierà il suicidio. Esplicita riflessione sul genere e ritorno dell’autore ai temi dell’amore per un film perfetto nella sua esecuzione come quella di un’opera sinfonica. Di tutt’altra natura e sostanza sarebbe stato il successivo Voglio tornare a casa (1989) storia farsesca, comica e divertita che vede un disegnatore di fumetti che reincontra la figlia occasionalmente. Peripezie visive e invenzioni divertite sembrano far dimenticare che si sta guardando un film di Alain Resnais.
Tre film forse restano legati di questa stagione della produzione artistica del regista: La vita è un romanzo, Smoking/No smoking (1993) e Parole parole parole (1997).
Del primo si è dato qualche cenno e quanto agli altri due, sebbene abbiano sfondi e ragioni realizzative differenti, sembrano uniti da uno stesso intento quello di una interazione forte non solo tra i personaggi, ma anche con l’intima struttura filmica.
Smoking/No smoking è l’antesignano di Sliding doors. Due film, due situazioni due esiti finali che dipendono dall’avere fumato o meno una sigaretta, per un’opera che va vista come unica, nonostante la suddivisione temporale. Le possibilità e le biforcazioni del tempo, suggeriscono soluzioni nuove per i personaggi che sono dominati dalla doppia possibilità del “se invece…”. Tratto da un’opera teatrale che diventa una specie di puzzle, un rompicapo sul tempo e sulle possibili vite di personaggi eternamente in scena.
Il secondo, invece, sembra risolversi in una commedia dal forte sapore musicale, poiché i personaggi esprimono le proprie emozioni attraverso le canzoni, la musica che diventa il filo conduttore di una vicenda d’amore. Si tratta di due film eleganti, impeccabili nella loro messa in scena, dotati di una autentica originalità che fa si che abbiano un posto centrale nella fimografia di Resnais.
Le ultime fatiche del regista francese non si discostano dall’analisi dell’universo amoroso, quasi che la vecchiaia dell’età corrisponda ad una straordinaria giovinezza che serva a comprendere i fatti d’amore e le realzioni tra personaggi. Cuori del 2006, tratto da un testo teatrale, il film studia il rapporto tra personaggi, tutti intrappolati comme in una tela di ragno come dice lo stesso Resnais e il movimento di uno ha influenza sull’altro. Un cinema razionale e sempre ineccepibile nella dimostrazione finale del teorema. Ma i fatti d’amore riguardano anche i compromessi del film successivo Gli amori folli del 2009 nel quale l’accettazione di un compromesso d’amore equivale ad una speranza per il futuro e che si adetto da un regista all’epoca quasi novantenne è un bel risultato. Vous n'avez encore rien vu del 2012 prova ancora la grande voglia per l’anziano autore di sperimentare e di utilizzare il cinema, la letteratura, la musica come di una tela sulla quale ricomporre la propria idea della vita che vive di assonanze e opposizioni. L’ultimo film che ci ha lasciato è Aimer, boire et chanter presentato qualche settimana fa al festival di Berlino, ennesimo gioco su più piani di un regista davvero sorpendente.
Resnais oggi ci ha lasciato e ha lasciato il suo gioco preferito, il cinema, un genio dell’inganno cinematografico, un genio dell’invenzione e un originale grande cineasta, l’unico a percorrere attraverso quei concetti teorici, i sentieri di un cinema rarefatto, teorico, ma sempre straordinariamente avvincente nella sua sottile e perversa ironia.