Alan Bates, messaggero di cinema.

Morto a sessantanove anni in Inghilterrra dov'era nato, Alan Bates è tutto racchiuso in un corpo scisso in metà inconciliabili; da un lato pura forma della stabilità istituzionalizzata, dall'altro invece contaminazione galoppante di sguardi asincroni e deviazioni aberranti.

--------------------------------------------------------------
CORSO DI SCENEGGIATURA ONLINE DAL 6 MAGGIO

--------------------------------------------------------------

In morte dell'attore invisibile, del movimento rimandato. Dopo le geometrie mancanti dell'altro grande inglese David Hemmings, ci lascia anche Alan Bates, ma non riusciamo a scorgerlo un granchè bene. E' l'attore in assenza di corpo, la suggestione visibile già proiettata su quel lato dello schermo non raggiunto da nessuna fruizione. E' una questione di rifrazioni interne alla materia con cui si fa il cinema: se lo sguardo abita e pratica l'interno, l'esterno è appunto lontananza, distacco, estraniamento. Bates continua a sfuggirci semplicemente perché nomade dello spirito in un corpo scisso in metà inconciliabili; da un lato pura forma della stabilità istituzionalizzata (i suoi ruoli da compassato gentleman tutto teso alla conservazione di una struttura, non ultimo il formidabile Gosford Park di Altman), dall'altro invece contaminazione galoppante di sguardi asincroni, deviazioni aberranti, desideri inconfessabili (molte altre opere, tra cui L'australiano di Skolimowski). Insomma, Bates rappresenta oggi un punto attoriale inclassificabile, sfuggente alla norma dell'incasellamento, refrattario alla pratica dell'accostamento, appunto perché corpo sottratto da sempre alla abitudinarietà dello sguardo. Diciamo allora che se il Free Cinema inglese ha avuto un corpo( a differenza di quello irrisorio e frantumato invece dalla Nouvelle Vague), questo è stato un organismo spezzato in tanti rivoli (Julie Christie, Richard Harris, Albert Finney, Peter Finch, David "Morgan" Warner, Terence Stamp), che si riuniscono all'interno di un corso d'acqua che sfocia nelle acque tempestose agitate da Bates. Non dentro, non fuori, ma sempre a latere rispetto alla focalizzazione di uno Schlesinger, di un Reed, non a caso tutte miopie queste che giungono fino allo slittamento di un Lester e alle sue piroette nei territori scoperti precedentemente. La scrittura di Bates su se stesso (quella che iniziò a praticare sino all'età di undici anni, dal momento in cui decise di intraprendere il lavoro/carriera dell'attore) è quella allora inchiodata su un automatismo che scinde la quotidianità del gesto, per intrappolarlo in una riproduzione libera/fantastica di sguardi sfrenati. E' la storia insomma di un'esclamazione fisica (quella che Bates replicava numerose volte l'anno nei teatri di Londra, con la sua compagnia, la New English Stage Company) che nasce sul palcoscenico di un teatro, per riprodursi subito dopo in una deflagrazione distruttiva, all'interno di un set cinematografico in cui mutare continuamente aspetto e intonazione.

--------------------------------------------------------------
#SENTIERISELVAGGI21ST N.17: Cover Story THE BEAR

--------------------------------------------------------------

La storia di questo passaggio è quella che inizia con Gli sfasati di Tony Richardson (qui Bates interpreta uno dei figli di Laurence Olivier) e che culmina subito in Via dalla pazza folla di Schlesinger, due poli allora di una carica elettrica destinata alla trasmutazione e subito dopo all'annientamento. Richardson in questo senso fonde la scrittura di John Osborne in un cinema già meticcio, pozza d'acqua riflettente il passaggio di corpi variegati e implosi, lungo dinamiche in cui la sceneggiatura incontra l'attore che incontra un regista assiso perennemente fuori dal set. Bates è già moltiplicato in parti opposte (presenza in teatro, ma assenza vorticosa in un cinema che sfugge la definizione) e già proteso verso punti di fuga illusori e instabili. Lo specchio fenomenologico della sua intermittenza è allora il rapporto sfocato con una moglie in crisi (parliamo di Una maniera d'amare di Schlesinger), ma anche quello che traspare in Running man di Reed (Un buon prezzo per morire), dove non fa altro che deviare dalle proposizioni lineari che scandiscono l'innamoramento per la donna sbagliata, in un cortocircuito di forme che sbaraglia ogni narrazione (Reed era già un classico che Bates invecchia, oltrepassandolo in velocità verso le rupi scoscese del melò mancato) e si impone come superficie tagliata da corsi irruenti. Sono questi a imporre di volta in volta un traghettamento impossibile verso le sponde immediatamente visibili e flagranti di opere che l'attore inglese vive all'insegna di uno sdoppiamento perenne, che culmina nel Messaggero d'amore di Losey. Il titolo originale (The go between) inventa dal nulla una traccia formidabile e potente che smaschera ogni pretesa di presenza (il piccolo protagonista deve di fatto fare la spola tra due corpi inclassificati, quello di Julie Christie, nobile inglese, e quello dello stesso Bates, appartenete ad una classe sociale ben diversa da quella della donna che ama). In questo senso allora la spinta al desiderio operata da Losey non può che costringere Bates alla vista desiderante di una donna angelo quasi sottratta al suo sguardo, in un'accensione di forme scritte (quelle appartenenti alle lettere che i due si scrivono) che trovano lo zenith dell'intensità fisica ritardata in zone intermedie, dove il "between" del titolo fraseggia uno scambio fra set siderali, illuminati da un'intermittenza lieve e leggera, temporalizzata da frammenti di vita in ordine sparso. Bates è allora la passione inconciliabile, il corpo a cui scrivere, l'entità di mezzo che staziona nei limbi angusti di un presente lacerato, laddove l'amore è attesa replicante di un'unione impossibile. Frankenheimer allora ha semplicemente anticipato la lezione di Losey in un orizzonte però ben definito (quello della Russia zarista di L'uomo di Kiev) in cui Bates, corpo colto nella deriva di un'azione mai commessa (quella relativa allo stupro della figlia del suo padrone), vive il riflesso angusto di una situazione come declinata al futuro anteriore e particellizzata in un sussulto narrativo ben preciso.

La narrazione è d'altronde l'enunciato con cui si dà forma ad un universo abitato, ma Bates sfugge al rigurgito storico dell'atto, perché destinato all'osservazione, al malinteso (ancora L'uomo di Kiev) e ancora all'evasione distruttiva in una prospettiva fuori cornice che lo reclama, come accade ne L'australiano, dove Skolimowski filma il possibile seguito del Messaggero d'amore di Losey. Nell'opera Bates non si limita più alla stasi febbricitante nel between, ma azzarda l'insider, penetrando stavolta in piena regola nell'interno borghese abitato da una coppia benestante. E' il sogno fatto dieci anni prima, la colonizzazione veloce e ritmata di uno spazio di cui Bates si riappropria con un passo selvaggio, diretto ad una metà oscura che sancisce la lenta rarefazione dell'ingresso. Bates in realtà infatti non può davvero entrare, semmai infatti esce dalla gabbia smerigliata in cui aveva immaginato il farsi del cinema borghese (una caverna di Platone in cui non ci sono nemmeno più ombre, ma soltanto suoni, rumori, da ricostruire poi sotto forma di visione), per poi ondeggiare inquieto e confuso in una dimensione folle (Skolimowski immagina già il dopomorte dello sguardo seriale/omologato in una catastrofe politica/romantica rotta da una liquidità classica irriproponibile) ed esagitata. Sotto certi punti di vista allora, Skolimowski non fa altro che materializzare un corpo da ricostruire (la presenza iniziale e finale del personaggio interpretato da Bates in un manicomio sottolinea appunto l'inevitabilità della ri/educazione, quale spinta alla formalizzazione di un nuovo ingresso, stavolta nel luogo di non recupero), da quel momento in poi inserito, almeno apparentemente, in un circuito rigido di inclusioni/esclusioni che tornano nel primo Ivory di Quartet, una regola del gioco mutata di segno in favore di una successione amorosa/sessuale in cui Bates, archiviato forse definitivamente l'esterno della libertà vigilata, si impone quale misura dell'interno (diventa infatti l'amante di una donna a cui, assieme alla moglie, ha dato ospitalità per qualche tempo). Ma l'interno non è soltanto pianificazione, orizzontalità, sicurezza. Bates perlomeno lo volge nel suo contrario, adibendolo a non luogo per eccellenza in cui perdere i segni di un'identità acquisita nel tempo e poi dilaniata nella morte a lavoro del Doctor M chabroliano. Qui Bates frantuma ogni possibile durata dell'essere-in-vita per accedere ad un controllo (quello televisivo, basato sul simulacro di forme femminili) spietato di una dis/umanità folgorante, avvinta da un corpo mabusiano e mutante che mangia l'anima, restituendo occhi differenti. Alan Bates (trascurando le sue ultimissime apparizioni in opere come Al vertice della tensione) è stato allora tutto questo, ma anche qualcosa di più. Un uomo solo, vicino alla moglie morente nello splendido Duet for One di Konchalovski, un corpo nudo che si dimena allo spasimo nel capolavoro di Ken Russell, Donne in amore, lo scrittore amico di Zorba il greco nella trasposizione cinematografica omonima. Come insegna allora Russell, Bates rappresenta una nudità accecante, un corpo senza pelle. Il messaggero di una lettera senza destinatario.

--------------------------------------------------------------
CORSO ONLINE SCRIVERE E PRESENTARE UN DOCUMENTARIO, DAL 22 APRILE

--------------------------------------------------------------

    ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER DI SENTIERI SELVAGGI

    Le news, le recensioni, i corsi di cinema, la riviste, i libri, gli eventi e tutte le nostre iniziative


    Array