Alberto Grifi: Verifica (mai) certa…
“Grifi!" è un urlo ma anche un sussurro insistito, un isterico motto armonioso, singolare e plurale visione invertita, ce(n)surata, ripetuta, titolo di una rassegna itinerante e di un appello di tutti i "grifi" destinati a rincorrere per sempre l'uomo con la macchina da presa e con il videotape…
"… lo Stato predica l'etica del lavoro, la pace sociale, i sacrifici; mentre l'opposizione selvaggia praticava l'illegalità, l'esproprio, il rifiuto del lavoro salariato, la disobbedienza civile. Il mondo cambiava e il cinema rimaneva immobile. Se provava a descrivere la nuova realtà lo faceva rimaneggiando in tutte le salse gli stereotipi del cinema del passato che, del resto, aveva avuto ben altra dignità. La maggior parte dei registi, vecchi o giovani che fossero, non coglieva i significati profondi dei nuovi desideri delle donne, dei ladri, dei matti, dei drogati visionari; e i loro film rimanevano nell'ottica ristretta della piccola borghesia dalla quale spesso provenivano, sessista e classista.
Per me era inevitabile confrontare la condizione proletaria con la nostra di cinematografi. Per me i riformisti erano proprio gli artisti abbarbicati al miserabile privilegio di descrivere voluttuosamente la propria alienazione. Sarebbero stati gli ultimi a capire di essere servi del potere massmediatico, uccellini che cantano senza la forza di rompere la gabbia che li imprigiona. E' infatti quando i processi rivoluzionari falliscono nella vita che la creatività ripiega sull'attività artistica. Ed è proprio quando la creatività si concretizza in opera che il capitale la mette sotto controllo, mercificandola, organizzandola in spettacolo, rendendola impotente. Al contrario, in una società in rivoluzione è la realtà stessa che diviene il luogo della creazione permanente. A condizione che la nuova vita non cada mai al di sotto dell'intensità dei momenti più alti della vecchia arte.
Per me era ora di buttare nel cesso le sceneggiature scritte in un linguaggio la cui sola sintassi è la regola del mercato.
Per realizzare il cinema che ho sempre amato, bisognava liquidarlo, trasformare i sogni che contiene in vita vivente, in una vita nuova…".
Raggiunte parole: "Chiedo una casa che non sia lontana più di quindici minuti da un ospedale… il mio fegato credo sia giunto all'ultimo capitolo… oggi vivo da un amico che ha un tumore al ginocchio… voglio continuare a lavorare sul mio materiale ancora incompiuto e credo che non mi rimanga ancora molto tempo a disposizione…".
Certi dei fatti: Alberto Grifi ha un corpo malato, ma sempre "macchinoso", calato al centro dello spazio da rappresentare, operatore e attore allo stesso tempo, distaccato e, contemporaneamente, coinvolto nella materia trattata. Intorno a lui ruota l'underground italiano, lo sperimentalismo di verità/finzione, dentro di lui scorre il cinema arterioso che ha sempre dato a quel cinema venoso che non ha mai restituito. Vorrebbe vivere e lavorare nel suo mondo/cinema "brado" e chiede una casa/laboratorio dove poter ripensare alla verifica (mai) certa del suo sguardo. Vorrebbe trascorrere il tempo che gli rimane, come ha sempre fatto, in simbiosi con l'ottica deformata del "fish-eye" o gli specchi a geometria simmetrica che ricordano i giocattoli dell'infanzia; vorrebbe sforzarsi a piangere come
"Grifi!" è un urlo ma anche un sussurro insistito, un isterico motto armonioso, singolare e plurale visione invertita, ce(n)surata, ripetuta, titolo di una rassegna itinerante e di un appello di tutti i "grifi" destinati a rincorrere per sempre l'uomo con la macchina da presa e con il videotape. ..