Alberto Sordi, un uomo per tutte le stagioni

E' stato un uomo per tutte le stagioni, una sorta di sublime contraltare alle astrattezze da commedia dell'arte di un altro grandissimo, Totò, diverso però da lui proprio nel voler perseguire sempre e comunque un corpo che correva, un Paese che stava cambiando, un linguaggio da re-inventare di volta in volta con accenti uguali e differenti.

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Quando pensiamo ad Alberto Sordi, è difficile restare in territorio cinematografico, proiettarci all'interno di un preciso emisfero finzionale, e da lì, iniziare il fuoco incrociato di ricordi e di sensazioni. Diciamo allora che Sordi lo abbiamo fagocitato nella nostra piccola/immensa sfera vitale già da un po'. Sordi è uno di noi, Sordi siamo noi. I piccoli inferni quotidiani, i tic con cui dire sì alla vita ogni giorno, le idiosincrasie violente con cui ci trasciniamo nell'agone dell'esistenza. Ma non basta. Al linguaggio del corpo, corrisponde (quasi) sempre un linguaggio verbale, un modo di dire, un'invettiva sospirata/ urlata/ accennata. Non è facile scrivere su chi è riuscito a costruire in sessant'anni di carriera un modello sbilanciatissimo di automa tutto umano, nel quale prima o poi, ci siamo riconosciuti un po' tutti. Sordi non è semplicemente un attore, un interprete, un uomo di cinema. Lo ripetiamo, corrisponde nella sua irresistibile carica umana e corporea all'immagine/ tempo/ movimento con cui entriamo in sintonia ogni istante, ogni porzione di attraversamento vitale. Il suo percorso umano e professionale è allora stato centrato proprio su questa deriva: essere, nel cinema, uno specchio in progress (e allora del tutto slegato dalla staticità passiva e atrofica) di un corpo. Non parliamo del nostro corpo, o meglio, non solo. Si tratta del corpo di un Paese, delle sue trasformazioni, dei suoi tanti impossibili assetti adottati nel corpo degli anni. Il dopoguerra, il boom economico degli anni'60, la stagione turbolenta dei Settanta, e così via. Un uomo per tutte le stagioni, una sorta di sublime contraltare alle astrattezze da commedia dell'arte di un altro grandissimo, Totò, diverso però da lui proprio nel voler perseguire sempre e comunque un corpo che correva, un Paese che stava cambiando, un linguaggio da re-inventare di volta in volta con accenti uguali e differenti. Sarebbe quasi da smontare il suo corpo, dando così fiato al prolificare indifferenziato di tanti, piccoli appunti di viaggio che custodiremo sempre gelosamente con noi. La voce (quella che prestò ad Oliver Hardy), la risata, il fraseggio mimico, lo scoppio verbale. Sordi non ha mai abitato la distanza, non si è mai fatto partecipe di un filtro con cui interagire con la luminosità dello schermo. In uno scenario/set dalle proporzioni cristallizzate in elegia nostalgica del ricordo, riandiamo con la mente alle tante sale di periferia e non che campeggiavano nel tessuto urbano del nostro dopoguerra, un Italia da ricostruire, un'identità nazionale martoriata dalla guerra. Sordi era già lì. Prima solo con la voce (alla radio con gli incredibili personaggi del Conte Claro di Mario Pio, del Signor Coso), poi con le prime apparizioni sul grande schermo, quasi a voler esorcizzare la lontananza con cui gli italiani fantasticavano sui divi d'oltreoceano. Niente di tutto ciò, Soldi era lì, a dire della meschinità dell'uomo, della sua debolezza, del suo spirito di sacrificio , ma non solo. Delle tante, diverse possibilità di essere comunque uomo, non rinunciando mai a quella essenza vitale che è tratto caratteristico di ogni corpo che si rispetti.

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L'inizio è folgorante. Si tratta di Mamma mia che impressione (1951) ed è la volta in cui Sordi porta al cinema il famoso compagnuccio della parrocchietta, sotto forma di ragazzone dalla voce inconfondibile che rinuncia da subito ad un set prefissato e previsto per avventurarsi nelle retrovie della capitale, facendo danni, creando uno scompiglio assoluto e calamitando l'attenzione sul suo farsi corpo incapace di reggere la claustrofobia imperante di un solo spazio scenico. Ci basterebbe solo quest'opera per individuare quale sarebbe stata la portata della sua presenza filmica all'interno del progetto cinematografico che lo ha visto protagonista assoluto. Si tratta allora della commedia all'italiana, del castigat mores ridendo, e di un'idea di cinema tout court che ci è parsa sin troppo angusta e limitata nel suo svolgimento, capace però di dargli possibilità di continuare nel suo discorso personale, nella sua originale messa in campo di situazioni e personaggi che, se da un lato obbedivano alla meccanica molto scritta del gioco rappresentativo, dall'altro schizzavano continuamente su traiettorie impensabili, felici di contaminare con un ché di folle e sragionato ogni tipo di concatenazione logica del filmato. Però, prima di affrontare questo discorso, è bene dire due parole sul Sordi di Fellini, quella figura dolcissima e stralunata che Federico ha voluto porre al centro del set delle sue prime opere. Lo sceicco bianco, allora e I vitelloni, in cui Sordi dà forma al desiderio di evasione (ne Lo sceicco bianco sotto forma di biancore allucinato/schermo proiettore dei desideri di fuga della protagonista) dell'uomo qualunque (nei Vitelloni appare come pedina impazzita di un gioco delle parti a cui partecipa per forza di inerzia, sempre pronto però a fagocitare la scena con movimenti assolutamente imprevisti, basti pensare alla bellissima sequenza in cui appare ubriaco, all'alba, con un pesante trucco di Carnevale che gli cola dalle guance), riuscendo in questo modo a provocare sul set del cinema postneorealista di Fellini il simulacro inquieto e mai domo di una corrispondenza difficile da azzeccare tra forma e sostanza della mimesi rappresentativa. Scavalca continuamente il set Sordi, mentre la logica narrativa indica una certa strada, sembra prenderne un'altra, seguendo così un percorso immaginativo che lo porta direttamente ai primi passi della commedia all'italiana, con La grande guerra di Monicelli (1959). Sordi si trova in compagnia di Gassman, ne condivide la militanza nella prima guerra mondiale per poi affiancarlo nell'eroico sacrificio finale. E' un'opera di caratteri, di personaggi, di sceneggiatura (questo il limite massimo del cinema di Monicelli, proprio l'incapacità di immaginare il cinema come dispositivo aperto alla fantasmatica della visone, all'apertura verso l'esterno, all'eliminazione graduale del sostrato scritto), ma Sordi ne è il vero cuore, il primo motore instancabile di virtuosismi recitativi che passano come niente fosse dal tragico al comico, interponendo soluzioni di continuità praticamente invisibili, visto che si tratta sempre di uno stesso corpo, calato all'interno della vita, superando dunque l'impostazione granitica del presupposto base dell'opera.

Ma Sordi era così. Nel Marito, in Tutti a casa, nel Vigile,(ha interpretato più di centonovanta film, difficile citarli tutti) si trattava sempre di scegliere un certo tipo sociale, di amarlo, di ridicolizzarlo, di portarlo poi sulla scena cambiandosi ogni volta di segno. In tutto il suo cinema anni '60 Sordi infatti non ha fatto altro che mutare di volta in atto l'assetto compositivo dei suoi tanti io, costruendo di volta in vota dei meccanismi di identificazione che lo vedevano sempre presente all'interno di coordinate abbastanza precise (ci si riferisce naturalmente ai film con Monicelli e Risi, ma anche a quelli con Zampa), ma non abbastanza per le sue intenzioni decostruttive. Voleva esprimere la vita Sordi, quella di tutti i giorni, quella che ti sfugge sottomano, quella che non si può esprimere in un testo, in una sola visione, all'interno di un unico meccanismo filmico. Ed ecco allora come Sordi (anche se se ne sono accorti in poco) non sia mai stato un servitore freddo ed umile delle commedie in cui recitava, ma un loro distruttore, un cecchino attento a far collassare ogni impianto descrittivo in riverberi assolutamente geniali di costruzione comica/drammatica. Nando Mericoni  di Un americano a Roma (1954) di Steno, è già di per sé un manifesto programmatico. Nando è un giovane trasteverino, sogna l'America, non gli resta che giocare sui tanti, impossibili, falsi movimenti, immaginando di essere in America, di mangiare come un americano, di parlare come lui. Steno è qui grandissimo nel filmarlo, ma Sordi dà vita ad uno dei suoi personaggi più vivi, più accecanti, più veri, proprio perché meravigliosamente astratto e al tempo stesso fisico, materico, quasi allucinato. Vaga per la strade di una Roma quasi lunare, il suo linguaggio è un impasto di inglese maccheronico e romanesco volutamente caricato, il suo corpo un elastico in continua tensione che tocca uno dei vertici della nostra commedia nella celeberrima sequenza degli spaghetti prima rifiutati, poi azzannati con ingordigia. Non ha mai avuto bisogno di un regista Sordi, di una precisa scansione narrativa, ma di un semplice canovaccio. Ne Una vita difficile  (1961), peraltro una delle sue interpretazioni più difficili e grandi) segue Risi sino ad un certo punto, poi inizia a dirigere il suo film da solo. Durante la famosa sequenza della cena con i monarchici, le sue smorfie, le sue alzate di sopracciglia, il suo sguardo che riconfigura l'immobilità del set in caledoscopio spiazzante e sempre nuovo di orizzonti da superare, di soglie da lasciarsi alle spalle. I suoi excursus fuori/dentro il set continuano nel Vigile, ma soprattutto in Mafioso di Lattuada (una delle sue opere più belle e forse meno conosciute) in cui appare forse per la prima volta il suo corpo come collante ideale di porzioni geografiche prima di allora non ancora unite (cinematograficamente parlando, si intende), proprio all'interno di uno stesso, identico dispositivo che permette a Sordi di farsi pericolosa mina vagante rispetto alla rigida compostezza strutturale di tutta la commedia degli anni '60.

Ma Sordi, come peraltro abbiamo già detto, non ha esercitato la sua vis recitativa soltanto nella commedia. Se infatti nella Grande guerra affronta addirittura il tema del sacrificio personale e della conseguente morte, in un Borghese piccolo, piccolo (Monicelli, 1978) arriva addirittura a scoprire la sua parte nera, immortalandosi nell'alveo delle interpretazioni drammatiche di fine decennio. E'una delle opere più sbilanciate di Monicelli quest'ultima, una delle pochissime forse in cui il set non ospita sin da subito delle soluzioni scontate e delle impostazioni premeditate a tavolino. Si parte con divagazioni sociologiche, ci si arresta poi sul microcosmo familiare del protagonista, per seguirlo nella sua terribile vendetta contro l'uccisore del figlio. E' un Sordi sulfureo, cattivo, terribile, proprio nella misura in cui impiega la sua fisicità non più scattante ripercorrendo i passi dei suoi antieroi degli anni '50 e '60, ma con delle finalità alquanto differenti. Monicelli ha fatto il suo primo e ultimo film sul suo cinema, il più cosciente forse, se non altro per il grado di ritorno su di un set differente che permette a Sordi di mutare nuovamente il suo repertorio gestuale, fissandolo questa volta su coordinate feroci e crudeli, anche se capaci di accogliere in sé nuovamente il cambiamento (basti pensare che appena due anni dopo avrebbe rigirato con Monicelli nelle avventure del Marchese del grillo). Ci troviamo già a fine anni Settanta, ma ci preme ricordare che Sordi non era soltanto un attore, nell'accezione più limitata che adottiamo per questo semplice termine. E' stato un grandissimo allestitore di spettacoli, un cantante dalla voce profonda, quasi baritonale, ma anche un metteur en scene di se stesso senza eguali. Basti pensare ai suoi tanti interventi nel mitico Studio Uno, vera e propria officina degli anni '60, oggi reperto archeologico in cui rivederci alla luce di quanto accaduto nel frattempo. Sordi entrava in scena, e quando entrava si sentiva. Riusciva a stravolgere il set televisivo, costruendo un alveare di proposte nuove, di voci, di movimenti, di punti di vista assolutamente fedeli dell'Italietta d'allora, del suo conformismo, ma anche della sua innocenza, travestita da furioso inseguimento alle mode d'oltreoceano. Per non parlare poi della sua carriera parallela come regista. In realtà si tratta di una sorta di espediente linguistico tautologico visto che Sordi non ha mai smesso di dirigere se stesso, gli altri, anche quando la firma sui crediti dell'opera era un'altra. E allora Tutti dentro (Sordi, 1984) in cui si anticipava la Tangentopoli dell'inizio anni '90, Io e Caterina con le sue prese di posizione se non altro insolite e cattivelle per l'epoca sul rapporto tra sessi, per poi capitolare poi con gli ultimi Nestore, l'ultima corsa e Incontri proibiti in cui Sordi, toccando un bel vertice di teoria camuffata a dovere, non ha fatto altro che tornare sui luoghi deputati del suo cinema, aggiungendo e togliendo qualcosa, sempre in preda ad una sorta di strana, malinconica euforia che, accomunato in questo a Fellini, non lo ha mai spinto a scrivere la parola fine sul suo cinema, sul suo entrare dentro certi personaggi per poi ridarceli com'erano nella realtà. Da oggi risuonerà alto il cordoglio in tutta Italia per averlo perso (aveva ottantandue anni, ma lo vedevamo come un eterno ragazzino intoccabile, anche rispetto alla morte). Ma parlando di lui, ci viene naturale parlare di vita. La sua vita, che ci ha letteralmente donato in tanti anni, offrendosi a noi, regalandoci tanti bei momenti di allegria, facendoci piangere, ridere, partecipare. La stessa vita che vorremo ridare ad Albertaccio in questo momento. Per sempre.

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