Alcolista, di Lucas Pavetto

Ad una prima parte convincente e claustrofobica dove prendono corpo gli incubi etilici segue una seconda più vicina al thriller psicologico con una certa prevedibilità nelle svolte narrative

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Lucas Pavetto è un regista italo-argentino che nel 2014 aveva convinto con The Perfect Husband, opera prima indipendente e a basso budget, premiata in diversi festival. Il suo secondo lungometraggio Alcolista, narra la storia della dipendenza fisica e psicologica dall’alcol del protagonista Daniel (Bret Roberts già visto in S. Darko e The Perfect Husband) alle prese con la vendetta nei confronti del vicino di casa (Bill Moseley, attore tra i preferiti di Rob Zombie) reo di avergli sterminato la famiglia in un incidente di macchina. Tutto si complica quando interviene in suo aiuto Claire (Gabriella Wright) una assistente sociale che sembra uscita direttamente dalla seconda stagione di American Horror Story. Il tutto si svolge nei dintorni di Buffalo (New York) in una zona residenziale che nasconde dietro l’apparente benessere economico un sottobosco di rancore e follia.

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L’operazione di Lucas Pavetto di commistione di generi riesce a metà. Ad una prima parte convincente e claustrofobica nella quale prendono corpo gli incubi etilici (mostri incappucciati, insetti, case che si sgretolano), segue una seconda più vicina al thriller psicologico con una certa prevedibilità nelle svolte narrative. Lucas Pavetto è molto più a suo agio nell’atmosfera horror e utilizza con grande sapienza le luci e le ombre degli spazi chiusi approfittando della bravura del direttore di fotografia Angelo Stramaglia. Anche il montaggio e le musiche contribuiscono ad innalzare lo stato di vigilanza e certi jump-scare regalano allo spettatore più di un sobbalzo. Più che Hitchcockiano per le citazioni del voyeurismo (La Finestra sul Cortile) e della scena della doccia (Psycho), Alcolista sembra più una opera Polanskiana nel cercare l’orrore nel familiare, il perturbante tra le quattro mura.
Il regista italo argentino inoltre omaggia a più riprese l’Uomo Senza Sonno di Brad Anderson sia nella confusione identitaria che nel delirio autolesionistico del protagonista. Ma a un certo punto il film abbandona gli incubi, le voci, i rumori di sottofondo per battere il sentiero sicuro del “revenge movie”, senza più derive onirico-allucinatorie ma con una convenzionalità nel presentare il rapporto causa-effetto degli avvenimenti (si pensi all’incontro di Bret col padre o alle riunioni degli alcolisti).

Così il tormento sincero di Daniel, esaltato dalla performance attoriale di Bret Roberts, lascia il posto alla lucida psicopatia di Claire (Gabriella Wright riesce a rendere bene questa ambiguità) e riporta l’opera sui binari sicuri del noir politicamente corretto. Il sonno della ragione che aveva generato i mostri del subcosciente adesso si è trasformato in un gioco manipolatorio in cui gli psicofarmaci sostituiscono l’alcol. Più che i danni e i pericoli della dipendenza dalla sostanza, l’opera di Pavetto pone in evidenza gli effetti nefasti di una relazione d’aiuto patologica. Se è vero che le vie dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni per il povero Daniel si tratta di una strada senza uscita in cui il senso di colpa si fa insostenibile fino all’atroce beffa del finale. Forse dobbiamo ritornare al sottotitolo del film: “Certe dipendenze non hanno cura” e ripensare ad Alcolista come a un gioco al massacro in cui la vittima si lascia abbracciare dal proprio carnefice. O forse questo materiale bastava per un cortometraggio e avere scelto la durata più lunga ha tolto un poco il fiato all’operazione, abbassandone l’intensità emotiva.

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