All Eyes Off Me, di Hadas Ben Aroya

Il film della regista israeliana si scinde in tre parti più o meno connesse per raccontare l’insofferenza di una generazione. Premiato con la menzione speciale nel concorso lunghi Laceno d’Oro

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All Eyes Off Me è un prodotto singolare. “Singolare” nel senso di “diverso”, “anomalo”, ma sotto molti aspetti anche “proprio di un singolo individuo”. A regnare nel film di Hadas Ben Aroya sono infatti i personaggi, i singoli, non il coro, non l’unità. In questo senso “singolare” è la parola migliore per descrivere il modo in cui la regista israeliana (al suo secondo lungometraggio) cattura e cristallizza i suoi personaggi in un percorso che è solo loro, in un binario che porta alla destinazione di ognuno e si incrocia con i binari degli altri soltanto per necessità.
Quello che sorprende è infatti come All Eyes Off Me presenti una struttura totalmente chiara (tre atti, diciamo), ma allo stesso tempo, se non attraverso una connessione tra i personaggi, li sleghi fra loro, li faccia apparire come tre momenti che avrebbero potuto appartenere a luoghi e persone diverse. Se infatti il film si apre con Danny (Hadar Katz), che ad una festa tutto amore e cocaina, cerca di rintracciare Max (Leib Lev Levin), per potergli rivelare di essere incinta di lui. Non riesce ad essere chiara con il ragazzo, anche perché questi le racconta di aver appena iniziato a frequentare Avishag (Elisheva Weil), però avvisa l’intero gruppo di amici e si fa raccontare da una ragazza della sua età il processo di aborto, in una sequenza che è probabilmente la migliore del film. Danny è un personaggio carismatico, vorremmo sapere come la sua storia si evolva. Eppure no, Hadas Ben Aroya non ce lo permette e lascia sospesa questa prima breve sequenza per andarsi a concentrare sulla relazione d’amore (ma prevalentemente di istinti sessuali) fra Max e Avishag.

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E la stessa cosa accade per questo “atto”, poiché anche questo si interrompe tramite il personaggio di Avishag, la quale uscendo per fare la dogsitter finisce in una situazione in cui finisce per trovarsi a stretto contatto con l’uomo, avanti con l’età, del cui cane doveva prendersi cura. Ed è così che si chiude il film, con una riflessione sulla condivisione dei momenti di silenzio, che si pone totalmente in opposizione al frastuono con cui era iniziato, quello di una festa in cui perdere il più possibile coscienza di sé sembra l’obiettivo principale. Avishag prima cerca di introdursi in quello, poi in una relazione in cui possa finalmente sperimentare le fantasie sessuali che ha in mente, ma finisce per ritrovarsi su un pavimento di una bellissima casa di un uomo molto più anziano di lei, a condividere con lui il silenzio.
Ed è forse questo passaggio che la regista vuole mettere in scena più di ogni altro, perché di fatto la giovane è l’unica ad essere presente, in modi diversi, in tutte e tre le sezioni. Max è un comprimario meraviglioso in questa conversione della ragazza, perché la aiuta a sperimentare, ma anche a capire quali siano in fondo i suoi veri desideri. Quello che emerge però in ultima istanza è come la vita di questi tre giovani sia piena di una desolazione che emerge sotto diverse forme, ma sempre in maniera spietata.
All Eyes Off Me si rivela forse un po’ ingenuo, ma ha sicuramente il grande merito di portare in scena qualcosa di molto comune, in una modalità atipica. Singolare, appunto.

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