Alla Ricerca di Van Gogh, di Yu Haibo e Yu Tianqi Kiki
I due registi cinesi realizzano un documentario che mescola realismo sociale, intimismo e viaggio iniziatico. La storia di Zhao Xiaoyong interroga sul concetto di arte, tra vocazione e riproduzione
“Nell’arte bisogna avere un’idea madre, esprimerla in modo eloquente, conservarla dentro di sé e comunicarla agli altri con forza come l’impronta di una medaglia. L’arte non è una partita di piacere. È una lotta, un ingranaggio che tritura. Non sono un filosofo, non voglio sopprimere il dolore, né trovare una formula che renda stoici o indifferenti. Il dolore è, forse, quello che fa esprimere più fortemente gli artisti”
Vincent Van Gogh
Questa ed un’altra frase del celebre pittore olandese dell’Ottocento, entrambe tratte dalla fitta corrispondenza con il fratello antiquario Theodorus – “Se qualcosa parla in te per dirti che non sei pittore, ebbene in questo caso vecchio mio: dipingi! E questa voce tacerà. Ma tacerà solo se dipingi. Chi, ascoltando questa voce, va dagli amici a lamentarsi, a raccontare loro le sue preoccupazioni, perde un po’ della sua forza virile, un po’ del meglio che c’è in lui” – possono fornire delle linee guida per accostarsi al nucleo tematico e concettuale del documentario diretto da Yu Haibo e Yu Tianqi Kiki. Nell’epoca della multimedialità e della poli-funzionalità delle immagini, della loro mercificazione industriale e della loro de-contestualizzazione “semantica” e ri-appropriazione “organica”, in cosa consiste la vocazione artistica e a quale livello si collocano la potenza originaria della ποίησις e la missione autentica dell’arte? Questo dibattito ormai plurisecolare, che in qualche mondo riprende, aggiornandola, la querelle ottocentesca sulla valenza artistica della fotografia e, ancora prima, quella sulla dignità espressiva di strumenti come l’incisione e la riproduzione artistica tramite la stampa, si inserisce in un contesto sociale che, innervato nelle profonde trasformazioni in corso nella Cina a cavallo tra XX e XXI secolo, sembra volutamente ricreare uno scenario da prodromi della rivoluzione industriale, con i conseguenti fenomeni dello spopolamento delle campagne e della migrazione verso i grandi centri urbani e di atteggiamenti che potremmo definire “luddistici”, volti a sabotare dall’interno la macchina del crescente sviluppo al fine di preservare la qualità e la dignità del lavoro artigianale e manuale.
Il villaggio della pittura ad olio
Dafen è un piccolo villaggio urbano della città di Shenzhen nella provincia di Guangdong, nella Cina continentale meridionale. Fondato nel 1988 dal pittore e uomo d’affari di Hong Kong, Huang Jiang, nell’immediata periferia della special economic zone di Shenzhen, il centro ha vissuto una straordinaria espansione, passando da una ventina di “artigiani del pennello” ad oltre diecimila pittori attivi nei numerosissimi atelier della zona, in massima parte agricoltori strappati alla terra per incrementare il fiorente mercato della riproduzione artistica, ma anche artisti provenienti dalle accademie cinesi. Fino a pochi anni fa, infatti, dal villaggio di Dafen usciva circa il 60 per cento della produzione mondiale di dipinti ad olio: si tratta di riproduzioni di famosi artisti occidentali, da Leonardo da Vinci a Van Gogh, passando per i Manieristi e gli Impressionisti. Unica regola (non osservata soltanto per Andy Warhol e Salvador Dalì) è che gli artisti riprodotti siano scomparsi da almeno settanta anni. Insomma, un vero e proprio hub capace di produrre un fatturato annuo che si aggira sui 65 milioni di dollari. Questa attività fornisce repliche a grandi magazzini e negozi di souvenir in tutto il mondo e, per ironia della sorte, gli olandesi sono una parte importante di questa clientela. In una Cina in rapida crescita economica dagli anni Novanta, l’emergente borghesia imprenditoriale trovava chic possedere una o più di queste riproduzioni, assurte al rango di status symbol, anche per la deferenza di cui è circondata l’arte europea e americana. L’impressionante sviluppo economico del Paese degli ultimi vent’anni ha però segnato una battuta d’arresto in questa florida industria autarchica. In primo luogo, l’aumento dei canoni di affitto degli atelier ha sensibilmente ridotti i margini di guadagno dei pittori, mentre la maturazione della cultura artistica dei ricchi cinesi, grazie anche ai più stretti rapporti della Cina con il mondo occidentale, ha orientato diversamente i gusti in materia di opere d’arte. Fiutandone anche le implicazioni finanziarie, i milionari cinesi hanno cominciato ad investire nell’arte contemporanea, “snobbando” quelle copie d’arte non più ritenute all’altezza del loro rango. Come ineludibile conseguenza, i pittori di Dafen sono stati costretti ad un rapido adeguamento: i più giovani studiano l’are digitale, i più anziani continuano sulla strada della pittura a olio, dedicandosi però a soggetti originali di stampo contemporaneo, superando la logica tutta cinese del plagio. Dal 2004 la Prefettura di Shenzhen ha lanciato la piattaforma Art Industry Association of Dafen Oil Painting Village, dedicata alla promozione della pittura ad olio attraverso apposite manifestazioni annuali, o sponsorizzando la partecipazione degli artisti locali a rassegne quali la Guangdong International Hotel Supplies, dal momento che gli alberghi sembrano essere acquirenti ancora interessati alle copie d’autore.
Sugli autori
Presentato nel novembre 2016 nella sezione “Panorama” dell’International Documentary Film Festival di Amsterdam – dove i registi hanno lanciato il loro progetto nel 2014 e ricevuto sussidi per la distribuzione lo scorso anno – Yu Haibo e Yu Tianqi Kiki hanno successivamente partecipato a festival europei e nordamericani – il documentario ha gareggiato al 48° Vision Du Réel – Festival International de Cinéma di Nyon nell’aprile 2017 – prima di tornare in Cina con spettacoli a Pechino e la partecipazione al Beijing International Film Festival (premio per il “miglior documentario”) e al FIRST – International Film Festival di Xining nel luglio 2016. China’s Van Gogh fa parte del progetto Painting with Light: International Festival of Films on Art della National Gallery di Singapore. Il quarantanovenne Yu Haibo è un regista e noto fotografo cinese, direttore della Shenzhen Professional Photographers Association e chief photo editor di Shenzhen Economic Daily. Il suo reportage fotografico più importante, China Dafen Oil Painting Village, ha vinto il 49° World Press Photography Contest nel 2006 ed è stato esposto al Museo di Arte Moderna di San Francisco e al Victoria & Albert Museum di Londra. Pioniere della fotografia surrealista in Cina, il suo lavoro On the Other Riverside of the Illusion Chain ha vinto il primo premio al 15° National Photography Exhibition nel 1988. Dal 1989, Haibo ha lavorato alla fotografia documentaria e alcuni dei suoi reportage, tra cui Tibet, Music Youth, China’s Urban Expansion, hanno vinto molti premi e sono stati esposti in numerose gallerie. Del 2008 è il suo libro Living in China’s Shenzhen, mentre al 2012 risale il suo saggio fotografico One Man’s Shenzhen. Yu Tianqi Kiki è una produttrice di documentari, regista e studiosa di cinema, attualmente professore associato di Studi sul Cinema presso l’USC-SJTU, Institute of Cultural and Creative Industry, con sede a Shanghai. Altri suoi lavori includono Photographing Shenzhen (2007), Children of Tibet (2007), Tube (2008) e Memory of Home (2009).
“Pingo, ergo sum” e la creatività dell’inautentico
Alla Ricerca di Van Gogh filma la vita di Zhao Xiaoyong, un agricoltore giunto a Shenzhen due decenni fa, specializzatosi nella pittura ad olio. Egli supervisiona la produzione, diretta da lui stesso e da uno staff tutto familiare composto da moglie, fratello e cognato, di oltre 100.000 copie delle opere iconiche di Van Gogh. L’esperienza lo ha portato a “scaltrirsi” e a maturare un certo fiuto per gli affari, ma soprattutto ad affinare la sua perizia tecnica: non gli basta copiare scrupolosamente i capolavori originali che ha modo di vedere soltanto attraverso stampe o fotografie, Zhao vuole informarsi ed apprendere, studia la pennellata e la tecnica pittorica di Van Gogh ed è in grado di individuare difetti nel lavoro dei suoi colleghi pittori che soltanto uno specialista potrebbe notare. Quantunque nel film troviamo la testimonianza di un altro copista di Van Gogh ed aspirante pittore, Zhou Yongjiu, anch’egli contadino diventato pittore che sostiene di aver prodotto ben 300.000 repliche durante il suo periodo a Shenzhen, Zhao rimane il cuore pulsante del film. Il suo negozio non è uno spazio creativo, ma un business workshop che, a causa degli stravolgimenti economici in atto e del connesso mutare dei gusti, si sta progressivamente trasformando in un angusto e precario sweatshop. Molte persone dipingono giorno e notte per rispettare le scadenze, mangiano e dormono nelle due stanze che costituiscono la bottega, e la pressione e il duro lavoro non sembrano così diversi da quelli che comportano il cucire jeans o il fabbricare macchine da stiro. Ma Zhao ha un sogno: viaggiare attraverso l’Europa, in particolare recarsi ad Amsterdam per vedere i capolavori originali del maestro olandese custoditi nel museo cittadino, e ripercorrere le tappe principali della carriera artistica di Van Gogh, visitando Arles ed altre località care al pittore.
La macchina da presa – con le sue inquadrature panoramiche, i suoi piani sequenza ed i suoi primi piani su volti e prodotti dell’uomo – introduce lo spettatore nelle pieghe di una storia intima e personale che si svolge all’interno di una più generale storia economica e socio-culturale. Microcosmo e macrocosmo sono i due poli di interesse tra i quali gravita l’orbita narrativa della pellicola: l’atelier di Zhao e i grattacieli di Shenzhen si stagliano come coordinate geografiche ed antropologiche di un’epoca di trasformazione e contraddizione, tra recupero delle radici e progresso inesorabile, corsa ad oltranza allo sviluppo ed esperienze pratiche e tecniche che ne restano schiacciate e ai margini, la realtà aumentata di paesaggi urbani tentacolari ed avveniristici e quella, diremmo sottratta, di una “ruralità” di mezzi e di spirito confinata in qualche landa periferica. La bottega di Zhao è specchio, concreto e simbolico, di questi cambiamenti, configurandosi come una casa-officina in cui gli affetti familiari si intersecano con la pratica lavorativa e il ruolo cardine di padre e marito si perpetua ed amplifica in quello di maestro ed educatore, prima che gli avvenimenti esterni si ripercuotano sulla sua struttura, fisica e spirituale, rendendola un cantiere operativo “a catena di montaggio” non dissimile da un reparto industriale à la Ford. Ma ad essere replicate, riprodotte e mercificate non sono parti meccaniche, tessuti o prodotti di uso quotidiano, sono opere d’arte “irripetibili” che hanno segnato la storia del pensiero e dell’immaginario, non solo figurativo, europeo. Ed è a questo punto che la dicotomia tutta esteriore e formale dei “tempi che stanno cambiando” fa venire a galla uno scarto e delle contraddizioni più strettamente interiori e di contenuto. Le impellenti esigenze di sussistenza economica e le ferree logiche della produzione e del mercato si scontrano in Zhao con l’urgenza intima di sentirsi creatore e “padrone” del proprio lavoro e della propria abilità tecnica, di uscire dall’ombra e dall’anonimato di una pratica che fa arricchire soprattutto i suoi committenti stranieri per riappropriarsi della dimensione di “homo faber” (non è casuale il rimando al titolo del romanzo di Max Frisch, edito nel 1957) e, soprattutto, per rivendicare l’unicità ed irripetibilità della propria esperienza ed esistenza, di pittore e, prima ancora, di uomo. D’altra parte, tutto può essere riprodotto se si è disposti ad accettarne l’orizzonte limitato e Haibo e Tianqui Kiki ce lo ricordano opportunamente con la scena in cui Xiaoyong si fotografa con i familiari nel famoso parco a tema Window of the World di Shenzhen, davanti a centinaia di riproduzioni di monumenti europei ed internazionali, un’occasione per milioni di cinesi non sufficientemente agiati per sperimentare l’emozione di un viaggio e, magari, ingannare qualche parente o amico sui social network. Centrale in questo percorso è la visione collettiva di un film, ancora una volta un espediente tecnico del quale i documentaristi si servono per cogliere il sottile confine tra riproducibilità ed autenticità: Zhao, in compagnia di amici, familiari e colleghi, assiste a Brama di Vivere (Lust for Life, 1956) di Vincent Minnelli (a sua volta tratto dal romanzo di Irving Stone del 1934), con una partecipazione emotiva tale da passare nell’arco di pochi istanti dall’entusiasmo allo sgomento, fino al silenzio e alla commozione che accompagnano il momento in cui Kirk Douglas mette in scena il suicidio del pittore olandese poco dopo aver dipinto Campo di Grano con Volo di Corvi (1890). L’efficacia narrativa e simbolica di questo spezzone sta nel fatto che gli spettatori non sono improvvisati fumettisti o disegnatori cosmopoliti, ma uomini della classe lavoratrice che si guadagnano da vivere producendo copie dei dipinti di Van Gogh nei laboratori di una città della Cina meridionale.
La progressiva consapevolezza di sé e la maturazione umana e professionale di Zhao sono al centro della seconda parte del documentario: il viaggio in Europa e in Olanda, a fronte di un grosso sacrificio economico. E allora il film di Haibo e Tianqi Kiki prende la direzione di un percorso iniziatico, di un processo di formazione a tappe che è insieme profezia di rinascita e di ritorno. La passione di Xiaoyong rasenta l’ossessione, spingendolo ad immaginare i pensieri e le sensazioni del pittore, fino al surreale sogno, simile ad una visione estatica, in cui Van Gogh gli chiede: “Com’è dipingere i miei quadri? Come ti fa sentire?” e Zhao risponde: “Sono pronto ad entrare nel tuo mondo, adesso”. Ad Amsterdam avviene un’ulteriore presa di coscienza, con il protagonista che si rende conto non soltanto che le sue impeccabili copie non adornano le sale di qualche galleria di lusso di proprietà di coloro che riteneva essere suoi clienti, ma le assai più prosaiche pareti di un negozio di souvenir all’esterno del museo Van Gogh, ma anche che sono rivendute a prezzi maggiorati, fino ad otto volte il costo di acquisto. Soprattutto, il viaggio di Zhao è un’occasione per ristabilire un contatto con la terra, con la radice più profonda del proprio essere, oltre che con i colori e le atmosfere delle tele del maestro: dalla visita alle modeste lapidi infestate dalle erbe di Vincent e Theo nel cimitero di Auvers-sur-Oise alla visione diretta dei panorami rurali e della dimensione contadina ancora intatta in alcuni centri nei quali l’artista olandese visse e dipinse: avviene così che dipinti celeberrimi come Il Raccolto nella Piana di Crau (1888), Terrazza del Caffè alla Sera, Place du Forum, Arles (1888) – che Zhao riproduce fedelmente in trenta minuti nella posizione esatta in cui Van Gogh dipinse il suo capolavoro) – e Il Contadino (Ritratto di Patience Escalier) (1888) riprendono vita e forma e rinnovano la volontà del protagonista di proseguire nella pittura, segnando un’epifania che Zhao esprimerà con il pennello al suo ritorno a Dafen. Il documentario, senza mai cadere nel melodramma e nell’artificio sentimentale, rappresenta con efficacia drammatica, al netto di qualche pausa ritmica della narrazione, i dubbi, le frustrazioni e le aspirazioni di un artigiano-artista attraverso una riflessione sui concetti universali di arte, lavoro ed autenticità, di un prodotto e di un’esistenza umana, interrogando lo spettatore sulla portata dello sguardo e dell’immagine al tempo d’oggi, in costante bilico tra ripetitività meccanica e capacità di aprire nuove prospettive di visione.
QUI l’elenco delle sale italiane in cui il documentario sarà proiettato
Titolo Originale: China’s Van Goghs
Origine: Cina/Paesi Bassi, 2016
Regia: Yu Haibo e Yu Tianqi Kiki
Interpreti: Zhao Xiaoyong, Zhou Yongjiu
Durata: 82’
Distribuzione: Wanted Cinema