“American life”, di Sam Mendes


E’ fluido, pieno di risate, di consapevolezza leggera il viaggio. E’ la meravigliosa rappresentazione, ancora traboccante della nostra realtà percepita, di un amore che rincorre con gioia il proprio assurdo, la totale e necessaria (forse la chiave?) mancanza di risposte

 

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Verso una “speranza di vita migliore” (come ha dichiarato lo stesso regista), verso un futuro che purtroppo non si può guardare e conoscere attraverso una sfera, verso l’identità propria, personale, e forse, alla fine, di un intero paese. Un viaggio metaforicamente multiplo quello che intraprendono Burt e Verona, scandito dalle didascalie che illustrano le loro tappe: away to Tucson, away to Miami, away to Montreal…
E’ in apparenza la stessa storia, un paese tanto grande da sembrare fatto apposta per spostarsi nomadi da una parte all’altra, una volta per piacere (come i genitori di Burt), un’altra per dovere, una vita mai stanziale, proprio come quella media statunitense. Ma Mendes è britannico, e ha dalla sua una visione dall’alto e da lontano; e se non vogliamo osare riconoscergli l’oggettività, quanto meno lo sguardo del regista è tanto “distante” da restituirci, insieme, un itinerario in cui il fisico, il sociologico, l’esistenziale, l’emotivo passano per gli stessi punti; perle di straniante realismo (la rappresentazione della folle madre americana, primo incontro dei protagonisti); e il paradosso di un popolo e di un paesaggio che tende alla stanzialità, dalle villette che popolano province infinite al concetto di famiglia elevato a massima potenza e contemporaneamente svuotato.Burt e Verona hanno trent’anni e qualcosa, si autodefiniscono approssimativi (e falliti…), sono felici e perfetti (i movimenti dinoccolati e la totale assenza di carrierismo di lui, il cinismo dolce e l’immediatezza dell’emotività contenuta di lei) e aspettano una bambina. Soldi pochi, un lavoro nei servizi da remoto e uno nell’arte, il pretesto narrativo è il trasferimento (che con una delle tante battute chirurgiche anche nell’adattamento “porta l’egoismo a un altro livello”) dei genitori di lui proprio a ridosso della nascita. Svaporato l’unico legame con il territorio, questa coppia a cui il regista ha regalato il suo sguardo sulla vita parte. Alla ricerca di un posto che risuoni all’unisono. Un viaggio di pochi paesaggi e molta mente. Possono Burt e Verona riconoscersi in una “famiglia” che sta in piedi con la colla e due figli che non proferiscono parola per un’intera giornata? O in coppie stile new age dove i passeggini sono banditi e, grazie solo a un paio di metafore spaziali che reggono presupposte visioni del mondo, un’intellettuale rimarca la così bella tradizione orale del popolo cui Verona appartiene? Persino dove regna la pace, tra due genitori sommersi di figli adottati che si amano tanto da fare anche la spola notturna tra locali metropolitani, i protagonisti mancano il riflesso nell’altro. Mancano il modello. Hanno trent’anni e aspettano un figlio, è vero, e si amano tanto da potersi dire, con lacrime da crisi d’angoscia libera sopravvenuta in treno: “Ssecondo me dobbiamo stare a vedere come va”.
E’ fluido, pieno di risate, di consapevolezza leggera il viaggio. Non è solo uno straordinario mosaico umano di realtà e complessità. Non è solo un momento, sospeso giusto sopra l’eccesso, sopra la stoccata ai sentimenti fin lì cresciuti e aggrovigliatisi davanti allo schermo, in cui chiudiamo il cerchio e torniamo alla radice, all’inspiegabile, all’atavico, nostro e di quel paese che è senza identità, che è solo un’idea. E’ la meravigliosa rappresentazione, ancora traboccante della nostra realtà percepita, di un amore che rincorre con gioia il proprio assurdo, la totale e necessaria (forse la chiave?) mancanza di risposte.

Titolo originale: Away we go
Regia: Sam Mendes
Interpreti: Maya Rudolph, John Krasinski, Carmen Ejogo, Jeff Daniels, Catherine O'Hara, Maggie Gyllenhaal
Distribuzione: BIM
Durata: 98’
Origine: USA, 2009

 

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