"American Pie – Il matrimonio", di Jesse Dylan

Non poteva congedarsi con più schiettezza una trilogia che sulla sincerità e sulla disinvolta estraniazione dai problemi della vita fuori dalla sfera-sesso ha intessuto il marchio di fabbrica

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Giovani americani crescono. Assieme a loro muta anche la funzione di quelle torte che nel passato venivano tirate in faccia al malcapitato di turno. Ora svirgolano e puntano in basso verso le parti basse, quelle che nelle commedie dei nonni rimanevano fuori campo. Le torte americane di oggi sono pasticci di gag e ormoni, ingredienti in escrezione di un corpo che cambia. Niente di più naturale: "siamo normali". Lo dice infatti Jason Biggs in chiusa a questo film dopo essersi confessato perverso e aver tacciato amorevolmente la neosposa come ninfomane. Termina così il terzo episodio della fortunata saga American Pie. Non poteva congedarsi con più schiettezza una trilogia che sulla sincerità e sulla disinvolta estraniazione dai problemi della vita fuori dalla sfera-sesso ha intessuto il marchio di fabbrica. Dopo la regia di Paul Waitz e quella di JB Rogers per il secondo episodio, Jesse Dylan (figlio del mitico Bob) porta all'altare Jim e la sua dolce e arrapata suonatrice di flauto traverso. Siamo al fatidico "sì" ma i problemi non mancano, sono sempre gli stessi. L'addio al celibato diventa generatore di catastrofi, incomprensioni e giochi da allupati pronti (per l'ultima volta?) a incasinare il già casino per definizione. Ce n'è per tutti i gusti. Un'ultra ottantenne che torna al sorriso dopo anni di inattività sessuale, refoli di peli pubici, bignè al gusto di deiezione canina, sfide di ballo all'ultima smorfia, ma anche passeggiate romantiche, tenere e buffe discussioni con il papà e quindi tutto il tempo per emozionarsi ridendo. E' una piccola gemma la pellicola di Dylan, genuina come solo certi prodotti orfani dei soliti estetismi e sociologismi d'accatto sanno essere. Come i due predecessori il regista va dritto alla meta senza mai girarsi intorno a riflettere e ragionare su cosa o chicchessia. Non c'è tempo né voglia per pensare. American Pie è l'emblema e il prototipo della negazione di qualsiasi indagine extracarnale. Cambiano gli autori ma è sempre  "trombare" la parola d'ordine e la carta d'identità di American Pie. Serie che non si vergogna di esibire un linguaggio filmico e verbale sconcio ma pur sempre introflesso su se stesso e cortocircuitato nella messinscena di un'innocenza giovanile fuori dal comune. Quello che tutti e tre i film dipingono è un universo dove non esiste il mondo, non esistono storie e personaggi negativi (non possiamo dire altrettanto di Porky's, dove un sentore di morte galleggia in superficie), ma solo il desiderio innocente di lasciarsi andare. Magari anche sugli squarci inaspettati di latente omosessualità, ballando romanticamente in una desolata palestra accompagnati solo dalla musica.

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Titolo originale: American Wedding
Regia: Jesse Dylan
Sceneggiatura: Adam Herz
Fotografia: Lloyd Ahern II
Montaggio: Stuart H. Pappé
Musica: Christophe Beck
Scenografia: Clayton Hartley
Costumi: Pamela Withers-Chilton
Interpreti: Jason Biggs (Jim Levinstein), Seann William Scott (Steve Stifler), Halyson Hannigan (Michelle Flaherty), Eddie Kaye Thomas (Paul Finch), Thomas Ian Nicholas (Kevin Myers), January Jones (Cadence Flaherty), Eugene Levy (padre di JIm), Molly Cheek (madre di Jim)
Produzione: Chris Bender, Adam Herz, Chris Moore, Craig Perry, Warren Zide
Distribuzione: U.I.P.
Durata: 97'
Origine: Usa, 2003

 

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