“Amici, amanti e…”, di Ivan Reitman
Amici, amanti e… è uno di quei rari film ‘definitivi’ sull’amore. Come Minnie & Moskowitz. Definitivi perché raccontano la storia sempre uguale dell’innamoramento come fosse una messa in scena, con i suoi punti obbligati, le sue paure, i tentennamenti, le incertezze, le sue finzioni magnifiche ed estenuanti. (l’appuntamento di San Valentino non è forse recitato come il finto primo incontro di Minnie e Seymour al coffee bar?), ma hanno la lucidità di riconoscere la propria impossibilità di concludersi davvero e rimangono dannatamente disponibili alle infinite possibilità di un dopo inconoscibile
Come Racconto, l’amore è una storia che si compie, nel senso sacrale: è un programma, che deve essere svolto. Per me, invece, questa storia ha già avuto luogo, perché ciò che è fatto accaduto rappresenta l’unica seduzione di cui io sono stato l’oggetto e di cui ripeto (e fallisco) il di-poi.
(Roland Barthes, “Frammenti di un discorso amoroso”)
Sei un coglione, dice Adam al padre, costretto in ospedale per un’overdose da sciroppo. Lo so – risponde Kevin Kline, il Grande Scott – Ma tu no. E forse è un po’ quello che direbbe Ivan Reitman al figlio Jason, già osannato dai critici (illusi), ma ancora bloccato nei cliché ‘indipendenti’ di un cinema che non ha la forza e il coraggio di lasciarsi andare alla deriva della vita. Il padre, invece, questo coraggio ce l’ha e perciò mette ancora una volta in gioco il suo cinema frammentario, insegue la solitudine disperata di un pianto in auto (piangi fermo in tangenziale, cantavano gli Afterhours) e sbanda senza preoccuparsi di ritmi e strutture. Perché la realtà è infinitamente più aperta, sottile e mutevole dei racconti. Come già ne I Gemelli, punta sulla diversità, fisica ed emotiva, dei personaggi, per scatenare l’azione e le dinamiche comunicative. Da un lato, Ashton Kutcher alto, giuggiolone, rinchiuso nel suo eterno personaggio da commedia romantica. Dall’altro Natalie Portman, piccola come un criceto, dura e fragile, sicura ed emotiva. Tra i due chi è davvero fuori parte è la Portman. E proprio per questo è il suo personaggio, Emma, a opporre resistenza, rifiutandosi ostinatamente di aderire al ruolo di amante innamorata. Per rientrare davvero in parte, per ammettere l’inevitabilità della scintilla, la Portman deve, insieme a Emma, far appello a tutte le sue forze, a tutte le proprie doti ‘interpretative’. E dunque, perché in perenne lotta col proprio ruolo, è da Oscar ben più che in Black Swan.
Amici, amanti e… è uno di quei rari film ‘definitivi’ sull’amore. Come Minnie & Moskowitz. Definitivi perché raccontano la storia sempre uguale dell’innamoramento come fosse una messa in scena, con i suoi punti obbligati, le sue paure, i tentennamenti, le incertezze, le sue finzioni magnifiche ed estenuanti (l’appuntamento di San Valentino non è forse recitato come il finto primo incontro di Minnie e Seymour al coffee bar?), ma hanno la lucidità di riconoscere la propria impossibilità di concludersi davvero e rimangono dannatamente disponibili alle infinite possibilità di un dopo inconoscibile. Per questo appare davvero stupida ogni obiezione di “mancanza di novità” della storia. Nulla di nuovo, tutto già visto. Certo: tutto è già visto, perché già vissuto a ogni innamoramento, ogni altra storia, in ogni tempo e latitudine. Reitman ed Elizabeth Meriwether, la sceneggiatrice, non hanno bisogno di introdurre nuovi elementi, come la malattia di Anne Hathaway in Amore & altri rimedi di Edward Zwick, perché sarebbe come un’intrusione capace di alterare l’effettiva realtà di una Storia che si dà così da sempre. La paura d’amare non ha spiegazioni, come se ci fosse un rapporto di causa e effetto. Ancora Roland Barthes: “Il tempo amoroso non consente di mettere sulla stessa linea l’impulso e l’atto, di farli coincidere: io non sono l’uomo dei piccoli acting out; la mia follia è misurata, non si vede; è subito che io ho paura delle conseguenze, di ogni conseguenza: ciò che è “spontaneo” è la mia paura – la mia indecisione”. Dinamiche eterne. Ma se come Racconto la storia ha una conclusione, fuori dal racconto, l’amore non può esser costretto e lo sguardo si arresta.
“Di fronte alla brillante originalità dell’altro, io non mi sento mai atopos, ma semmai classificato… Talvolta, riesco però a sospendere il gioco delle immagini ineguali; indovino che la vera originalità non è né in me né nell’altro, ma nella nostra stessa relazione. Ciò che bisogna conquistare è l’originalità della relazione”. Ma questa originalità della relazione riguarda le modalità in cui il legame cresce e si sviluppa, non la sua origine, il primo contatto. Conquistata l’originalità, il film non può che fermarsi. Reitman lo sa bene e perciò ha la lucidità rarissima di girare quel finale di splendida meraviglia, in cui Emma, spaventata (ancora), chiede ad Adam: “E adesso, cosa diciamo?”. BOOM: buio e tutto il resto è fuoricampo, destinato al silenzio. Da questo momento in poi, lo spettacolo è tutto da inventare, è infilmabile, perché ancora da vedere, immaginare, ricreare. E’ indicibile, se non attraverso un restringimento del campo, un gioco di ipotesi: “potrebbe andare così, ma non è detto”. Una volta che gli amanti hanno accettato a pieno i loro ruoli, finisce la commedia. Alcuni direbbero: perché inizia la tragedia. Ma è solo una delle tracce possibili. Amici, amanti e… è come la sceneggiatura di Adam, magnificamente imperfetta, ancora un episodio che non esaurisce tutto ciò che c’è da dire, ma mette in gioco verità, sincerità e passione che basterebbero per cento, mille altri episodi di mestieranti senza cuore e senza fegato. E ci dice che il resto è irraccontabile, se non per frammenti (quelli, ovviamente, sui titoli di coda). Così come in Minnie & Moskowitz, Cassavetes chiude sui dei filmini familiari, che sono lampi di felicità abbagliante, ma non riescono e non possono e non vogliono dire altro: ciò che c’è in mezzo, tra l’inizio e la fine. Un film d’amore non finisce mai davvero: si gira e si rigira nel tentativo non di concludere, ma semmai di spingersi sempre un po’ più in là nella comprensione della zona oscura. Lo sguardo di Reitman ci lascia con un’intuizione, fermandosi sulle due mani che si stringono. Ed è la stessa abissale intuizione di Hou Hsiao-hsien nel primo episodio di Three Times (non a caso A Time for Love). Qualunque cosa accada, io ti terrò per mano, ti sosterrò, sarò la tua spalla, proveremo a portare avanti il nostro gioco finché sarà possibile. Quelle mani sono una promessa, un giuramento fatto dalla propria parte all’altra parte. Finché La Morte (dell’amore, della vita) non ci separi.
Sì, siamo dei coglioni. Ma voi no. Per questo dovreste avere l’intelligenza di lasciarci andare fuori di testa per tutti i film che amiamo e che ci amano. Lasciarci andare a caccia, come Ghostbusters, dei nostri fantasmi segreti, delle nostre folgorazioni inspiegabili, misteriose come tutti gli amori di questa terra. Il mondo lo può sopportare.
Titolo originale: No Strings Attached
Regia: Ivan Reitman
Interpreti: Natalie Portman, Ashton Kutcher, Kevin Kline, Greta Gerwig, Lake Bell, Ludacris, Jake M. Johnson
Distribuzione: Universal Pictures
Durata: 108’
Origine: USA, 2011
encantado…