Amistade, di Antonio Rezza e Flavia Mastrella
Il dialogo a due tra RezzaMastrella e Fabrizio De Andrè è meno “bombarolo” di quello che ci si aspetterebbe. Restano gli incomparabili momenti rezziani ma l’omaggio al cantante rimane evanescente

Il Creuza de mä in dialetto ligure di Fabrizio De Andrè che incontra il grammelot di Antonio Rezza. Poteva essere ma non è stato. La demenza del teatro che nell’era del deleterio nostalgismo “asfaltava”, neologismo che nasce da quella tv anche a questo giro perculata (ma forse con troppa partecipazione nello sketch de “I fratellli Karamazov”: sorge il dubbio che stia davvero cominciando a guardarla dopo le ospitate per lancio di spettacoli e libri), la forma dell’omaggio postumo e quindi sempre, fastidiosamente, riverente. Amistade, di Antonio Rezza e Flavia Mastrella in scena al Teatro Vascello di Roma fino al 17 Dicembre, intendeva capire cosa potesse nascere dall’incontro del teatro della coppia attualmente più importante dei palcoscenici d’Italia ed il cantautore che ancora oggi incarna l’idea di poesia ed impegno civile. L’unione a freddo di due eccellenze però raramente ne crea una terza, soprattutto come in questo caso quando le affinità tra RezzaMastrella e De Andrè sono da ricercare col lanternino: esse sono visibili difatti più in certi atteggiamenti che in una sintonia o comunanza d’idee e di pensiero. Installato dentro lo spettacolo nato nel 2012 Fratto_X, l’utilizzo di spezzoni inediti di dichiarazioni e riflessioni di Fabrizio De Andrè presi dalla Teche Rai grazie al contributo della Fondazione De Andrè insegue allora per tutta la durata degli 80 minuti di spettacolo una ragion d’essere più scenografica che testuale. Il videomapping e le proiezioni con cui il fantasma del cantante – quasi mai mostrato in primo piano ma di sfuggita – punteggia le schizzate intemperanze di Mastrella non toccano infatti mai materialmente uno spettacolo straordinario ma che va per conto suo in maniera abbastanza netta. In Amistide sembra che De Andrè venga trattato come un ospite di prestigio che RezzaMastrella non intendono mettere in discussione: le riflessioni del cantante su uomini, religione e poesia vengono lanciate in un silenzio quasi irreale e solo un paio di volte, per sfortuna, commentate con biascichii di sufficienza dall’attore. Sia chiaro, anche in questo spettacolo ci sono alcuni momenti di comicità e meta-teatro geniali, come nella scena iniziale. Le urla belluine che per cinque minuti buoni provengono da fuori scena gettando nel panico un pubblico che tema debba davvero reagire con questo “foul” – in quante occasioni Rezza ha dimostrato di non avere pietà verso i suoi tanti idolatri – che chiede qualcuno gli apra la porta sono colpi che l’autore infligge ancora una volta alla concezione del teatro borghese, incentrato su una fruizione passiva.
Non mancano nemmeno le abrasive stilettate di nichilismo che, come saette inaspettate su un campo di battaglia dormiente, colpiscono lo spettatore quando meno se l’aspetta: “La spensieratezza va stroncata alla nascita”. Ma alcune gag, come quella di Rocco, Rita e sua sorella (“Sono la gemella di Rita, me so’ solo spostata” ha causato uno dei tanti, troppi applausi), pur piene della solita diavoleria da menestrello, hanno un po’ il sapore della reificazione a bocce ferme. L’assenza di una qualsiasi costruzione narrativa o di una sua pantomima, attuata per lasciare spazio a questo dialogo impossibile con Fabrizio De Andrè, lascia che i tanti momenti di bravura abbiano il sapore gustoso ma effimero dell’occasionalità. Non resta allora che andare in solluchero per gli sbertucciamenti basati su un semplice nome proprio come Mario che vengono tirati ed allungati in maniera giocosa mostrando come anche dietro la solidità di una convenzione così semplice e reale si nasconda la natura friabile dell’immaginazione: “Sono sempre stato Mario fino alle estreme conseguenze”. Rispetto ad altri testi di RezzaMastrella i momenti di cupezza sono meno presenti ma quando arrivano gettano nell’amen di un sintagma – “l’ansia terminale”, in questo caso – in un’angoscia destabilizzante che la risata non può e non vuole curare. Perché se Peppe, interpretato dal bravissimo Ivan Bellavista, impara a sue e nostre spese che “con la droga scompare l’ansia e arriva la Polizia” non sarà nemmeno la comparsa della Madre a salvarlo dal gorgo di sofferenza in cui è sempre stato. Rezza infatti rifiuta, sempre e comunque, tutte le istituzioni, anche quella mariana/materna: “La polizia spara, la madre partorisce: due modi diversi di uccidere”. In questo inveterato pessimismo filosofico ad essere ridicolizzato è anche l’amore, ridotto ad evento spazio-geografico di inane importanza, come le amicizie di Rita da Cascia: “Non è amore, è residenza”. Ecco che la lontananza col dolente romanticismo di Fabrizio De Andrè in questo scorcio diventa tangibile, molto più degli smozzichi di pensiero decontestualizzati che solo la stupenda scenografia di Flavia Mastrella, qui forse al suo lavoro più prezioso, contribuisce a rendere meno supponenti di quello che appaiano. Prendendo a prestito le stesse parole del finale sputate in un ghigno beffardo da Rezza: “Qui ci stanno i morti che si inculano i neonati” e noi vorremmo ancora sentire parlare di Piero che si fa sparare in un campo di grano in una guerra che ha meno senso delle mosse di questo straordinario saltimbanco?