"Amityville Horror" di Andrew Douglas

Filologico nella forma, ma molto meno nella sostanza, il remake del classico di Rosenberg punta sullo spavento facile, attingendo da esempi cinematografici più vicini al nostro tempo, ma generando una strana mistura, che affascina e al contempo lascia perplessi.

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La sfida in sé era davvero interessante, forse la più stimolante di tutta questa (spesso nefasta) pletora di remake che stanno invadendo le sale: tornare su un testo tutt'altro che "sacro" del genere, ma che pure è stato capace nel tempo di raggiungere una ragguardevole profondità mitica in virtù soprattutto del culto generato dai fatti (autentici?) narrati. La Platinum Dunes di Michael Bay, dopo il discutibile remake di Non aprite quella porta, conferma però di essere mossa da piglio filologico nella forma, ma ben poco nella sostanza.

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Così, il nuovo Amityville Horror rispetta e riprende tutta una serie di momenti topici del prototipo (spesso con gusto e capacità inventiva, si veda la scena delle mosche) e riesce a evocare una sensazione anni Settanta grazie a una fotografia pastosa e a un montaggio che pure non aggredisce la materia filmica, ma ossequia una certa tendenza più narrativa che spettacolare; al contempo però è palese come si sia di fronte a un film differente dal primo; come si sia abilmente lavorato per piallare il sottotesto e ripiegare l'intera vicenda sui classici cliché della casa stregata, attingendo da modelli più recenti, quali The Ring o The Grudge. L'orrore stavolta è esplicitato, manifesto e fa venir meno l'ambiguità cara a Rosenberg il quale, pur non riuscendoci granché, cercava di piegare la storia soprannaturale a una visione satirica della società oppressa dalla crisi economica.

Viceversa qui il meccanismo è votato soltanto a spaventare. Ma, e qui sta il bello, il film riesce nello scopo grazie al buon talento visivo del regista e a una compattezza narrativa sconosciuta al film del 1979. Quindi l'impressione generale è che si sia puntato a un approccio semplice, dove gli spiriti manifestano una tendenza autodistruttiva tipica del nucleo familiare americano moderno, nel quale non eventi esterni (la crisi economica, l'invasività della religione) producono le fratture, ma motivazioni endogene: in particolare il senso di estraneità che attanaglia il capofamiglia George, il quale si ritrova a capo di una famiglia da lui non costruita, dove tanto la moglie quanto i figli sono reduci da un primo matrimonio conclusosi anzitempo per la morte del marito/padre.


E' un film strano questo nuovo Amityville Horror, che affascina ma lascia anche perplessi, dove le scene più evocative si alternano a stanche riproposizioni di effetti "bus", nel quale il cast di bellocci appare fuori luogo, ma offre al contempo gustosi momenti di follia (si veda la parte con la baby sitter). Su tutto grava la certezza che non si avverte la presenza della casa, ricondotta ad ambiente più che a personaggio come nell'originale. Quindi un film godibile, ma che non ha una profondità mitica autonoma e deve perciò vivere di luce riflessa, incastrato com'è nella grande mitologia che compone il bizzarro disegno di Amityville Horror: a conti fatti è il maggior tratto che lo accomuna all'originale, cult suo malgrado.

Titolo originale: The Amityville Horror


Regia: Andrew Douglas


Sceneggiatura: Scott Kosar


Interpreti: Ryan Reynolds, Melissa George, Philip Baker Hall


Distribuzione: Metro Goldwyn Mayer


Durata: 90'


Origine: Usa, 2005

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