"Amorfù", di Emanuela Piovano

Prendendo spunto da un'eredità Nouvelle vague, la regista crea un film piccolo ma sentito, lontano dai cliché e dalle banalità, disegnando con abilità una storia d'amore tra psichiatra e paziente

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È un vezzo lasciare nell'ambiguità l'interpretazione del titolo: si tratta di un francesismo storpiato, o quel fu appartiene all'italico idioma a suggerire qualcosa che non è più? O forse il vezzo è quello di una cinefilia imbarazzata da cotanto modello, così timida da far mostrare di striscio a metà film che uno dei partecipanti di un congresso parigino di psichiatria non è altri che Jacques Rivette a parlare del suo L'amour fou. Ma sono vezzi che stanno però a sottendere qualcos'altro, che riescono a uscire dalla loro dimensione di gioco per mostrare un'idea di cinema compiuta e ben realizzata, e non, come accade spesso, elementi estranei che vogliono indicare uno status di autorialità – tanto desiderato quanto lungi dall'essere raggiunto. Nel film di Emanuela Piovano (Le rose blu, 1989, L'aria in testa, 1992, Le complici, 1998) c'è innanzitutto la capacità di evitare in ogni snodo chiave il pericolo di piombare in un cinema di clichés. Non si tratta di un'ennesima variazione del genere "i veri matti sono quelli normali", evitata grazie alla rappresentazione espressiva e teatrale del centro di ricovero per persone con problemi psichici. Le patologie sono appena accennate a comporre più un palcoscenico che una cartella clinica o, peggio, una teoria di macchiette. Non si tratta nemmeno di una perorazione a favore di una psichiatria basata su un rapporto umano medico paziente, alla Patch Adams per intenderci. Questa dimensione c'è, ma si siede in secondo piano e tanto meno è invasiva, tanto più è efficace. Alla fine, su questo sfondo "psichiatrico" Amorfù si configura come la ricerca di una strada sentimentale e professionale da parte della protagonista interpretata dalla brava Sonia Bergamasco. Una strada costellata di errori e di dolorose accettazioni, che si compone in un ritratto sentimentale minimale, ma per fortuna non minimalista. E' come se la protagonista non riuscisse a dare seguito nei comportamenti alle sue intuizioni esatte. Il primo scacco è subito al lavoro, in quanto ella non riesce a dare seguito alla felice intuizione della possibilità, attraverso una cura degli affetti e delle attenzioni, di una vita normale per il suo paziente Fausto (Ignazio Oliva). Infatti, dopo averlo "liberato", lo avvolge di attenzioni imprigionandolo nella sua casa uscita direttamente dal catalogo Ikea. Il secondo scacco è negli affetti, sempre con la stessa modalità, un'intuizione che libera seguita da un comportamento che rinchiude, Fausto diventa la possibilità di un amour fou intenso e innocente, ma che poi viene imprigionato nelle ansie quotidiane di protezione e, in fondo, repressione. Presa di coscienza di una difficoltà a vivere bene, narrata attraverso uno sguardo non privo di efficaci scelte registiche ma soprattutto pronto a cogliere gli angoli periferici dei comportamenti. Un film che rappresenta una lezione nouvelle vague ben meditata e digerita: per esempio il passato dei traumi di Fausto non è mai presentato in un rapporto psicanalizzante, di causa effetto, col presente, ma racchiuso in una rapida ed efficace sequenza di montaggio senza dialoghi.

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Un piccolo film, forse destinato a restare piccolo a causa della scarsità della distribuzione e dell'attenzione dei media, che ha qualcosa di semplice da dire e lo dice bene. E questo è già qualcosa.


 


Regia: Emanuela Piovano
Sceneggiatura: Massimo Felisatti, Emanuela Piovano
Fotografia: Alessio Gelsini Torresi
Montaggio: Paolo Benassi
Musiche: Gianluca Podio
Scenografia: Carlo Rescigno
Costumi: Lia Francesca Morandini
Interpreti: Sonia Bergamasco (Elena), Ignazio Oliva (Fausto), Barbara Mautino (Ivana), Isa Gallinelli (Costanza), Luigi Diberti (Franco), Giovanni Vettorazzo (Carlo), Mita Medici (la poeta rock), Bruno Gambarotta (Tosatto)
Produzione: Gaetano Renda, Emanuela Piovano per Kitchenfilms
Distribuzione: Keyfilms
Durata: 100'
Origine: Italia, 2003


 


 

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