Amrum, di Fatih Akin

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Una piccola storia desichiana sul finire della Seconda Guerra Mondiale, dai ricordi dello sceneggiatore Hark Bohm. Un Akin insolitamente accorato, tra Branagh e McQueen. CANNES78. Cannes Première

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Un Akin insolitamente misurato mette in scena i ricordi d’infanzia di Hark Bohm, gloria del cinema tedesco come sceneggiatore, regista ed accademico, oggi poco meno che novantenne, con cui il cineasta d’origine turca aveva già lavorato per il suo fortunato Oltre la notte. Bohm ha vissuto la Seconda Guerra Mondiale, da bambino, in un piccolo villaggio sull’isola di Amrum, nella Germania rurale settentrionale che affaccia sul Mare del Nord. Una comunità divisa tra i devoti assoluti al Reich e gli insofferenti nei confronti di Hitler e della sua politica bellica, contadini che spesso abitavano in case poste una di fronte all’altra, sulla stessa strada: il film prende il via con l’annuncio della morte del Fuhrer, e alla madre incinta del piccolo protagonista, nazista convinta, si rompono in contemporanea le acque. La sconfitta bruciante nel conflitto mondiale, unita ad una forte depressione post-parto, rendono la donna apatica, e decisa a rifiutare qualsiasi tipo di cibo. Il suo unico desiderio è una fetta di pane bianco con burro e miele, tutti ingredienti difficilissimi da racimolare in un’isoletta in tempo di guerra. Ma il piccolo Nanning Bohm non si dà per vinto, e pur di far tornare il sorriso alla madre, inizia una serie di peripezie su e giù per il villaggio, per ottenere i tanto agognati tre componenti del piatto.

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Akin è molto bravo a lavorare con gli interpreti, i volti di questa semplice storia d’infanzia che sembra quasi uno di quei racconti agrodolci del Roald Dahl più autobiografico, e dipinge un paesino di pescatori, fornai, macellai, bulletti che ciondolano per i campi, ma anche la rispettiva controparte altoborghese di case lussuose abitate da zii eleganti di cieca fede hitleriana: la natura segue il corso della ricerca di Nanning, apertamente desichiana (da Ladri di Biciclette a Ladri di Burro?), come il ritmo della risacca e dell’alta marea che regola il rapporto tra l’isola e gli abitanti, quelli che restano, quelli che vanno via, quelli che tornano dopo aver tentato fortuna addirittura negli States, come il padre lontano di Nanning. Mentre assembla questo anelato panino con burro e miele ingegnandosi in ogni maniera e barattando lo zucchero e il pesce avuto come compenso per giornate di lavoro, il bambino scoprirà alcuni sottaciuti segreti di famiglia e imparerà il senso della vita e della morte, non solo dei conigli che si troverà a dover cacciare: in questo, il piccolo ma accorato film di Akin sembra voler fare il paio con altre due storie recenti di infanzia sotto le bombe, come Belfast di Kenneth Branagh e Blitz di Steve McQueen.
Il regista tiene tutto in un equilibrio quasi fiabesco (l’apparizione della foca, l’attraversamento dell’acqua alta in bici, il sogno sugli zii d’America), l’omaggio all’amico e mentore Hark Bohm (che appare nel finale, intento a guardare il suo mare) si trasforma in un senso accorato della narrazione e delle immagini: per un amante dell’”effetto” come Fatih Akin, si tratta quasi di un piccolo miracolo.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.3
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Il voto dei lettori
3 (2 voti)

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