ANDREW STANTON, "il blu è il nuovo rosso"
Cinema che si autoperpetua, si riproduce espandendosi: Andrew Stanton alla Pixar sino ad oggi si è occupato di preservazione del Cinema – e della macchina. Archeologo dell'immagine, da Toy Story a Wall-E via Nemo, A Bug's Life e Monsters Inc, Stanton mette le proprie creature di fronte all'epifania della creazione del dispositivo: una vertiginosa presa di coscienza che ad ogni immagine ne segue un'altra che gli si aggiunge, gli si sovrappone, si guarda indietro mentre scorre.
Abbiamo avuto bisogno delle macchine di questo ragazzone di Boston, classe 1965, in forza alla Pixar dal 1990 – assunto come secondo animatore, nono impiegato della storia dell'azienda – per capire di nuovo come si usano le mani: i wanna hold your hand, verrebbe da cantare dopo Wall-E. Eppure Andrew Stanton lo sa da sempre. Nell'arco della sua incredibile carriera da Oscar (per Nemo) di animatore, sceneggiatore, regista, produttore, e doppiatore (tra le sue voci, quella dell'Imperatore Zurg di Toy Story, Crush la tartaruga in Alla ricerca di Nemo, e il perfido Hopper nel videogame di Bug's Life), Andrew Stanton, allo stesso modo se non di più dell'amico e compare John Lasseter, si è occupato fondamentalmente di preservazione del Cinema – e della macchina. Queste persone sono archeologi dell'immagine – non pionieri: e i 'nuovi' geroglifici della 'nuova' Umanità che vengono alla luce nei titoli di coda di Wall-E sono lì a dimostrare come il Cinema sia la nostra unica Storia. C'è una scena fondamentale a tal proposito in Cars, film-Pixar di Lasseter & Soci in cui Andrew si limita a donare la voce alla macchina sfigata, Fred – e che infatti è ben meno miracoloso nonostante i bolidi messi in campo di quanto sarebbe potuto esserlo in mano di Stanton – ed è di nuovo sui titoli di coda: le auto al drive-in si riguardano tutti i film-Pixar precedenti, reinterpretati dalle macchine. Quella che pare un'autocelebrazione del team di geni della CGI, e che probabilmente è invece una sorta di omaggio di Lasseter al clamoroso lavoro dell'amico Andrew e dei suoi collaboratori, è anche una vertiginosa presa di coscienza dell'abissale verità che ad ogni immagine ne segue un'altra che gli si aggiunge, gli si sovrappone, si guarda perennemente indietro mentre scorre in avanti. Questo momento ritorna più volte tra le realizzazioni di Stanton: è Wall-E che guarda e riguarda la vhs di Hello, Dolly! (stupefacente inserto di pellicola tra i pixel…), ma è anche Eve che riguarda la sua memoria registrata e scopre l'amore di Wall-E – è Buzz Lightyear che si rende conto guardando la tv di essere un giocattolo, è Woody in Toy Story 2 che si appassiona alla serie televisiva dedicata al suo personaggio. Creature messe all'improvviso di fronte all'epifania deleuziana della creazione del dispositivo: c'è qualcosa di più abissale del pesciolino Nemo che passa dalla meraviglia liberissima delle infinite profondità del fondale del mare digitale alla vertiginosa consapevolezza del vetro dell'acquario? C'è un'installazione di Andy Warhol del 1966 per Leo Castelli, le famose silver clouds, cuscini argentati riempiti di elio che galleggiavano per le stanze della galleria: "Andy diceva che voleva concludere la sua carriera di pittore con le Silver Pillows, facendole volar via dal tetto, ma queste non volarono via veramente. Questo fu un grande gesto; lui era il maestro dei gesti plateali." (Ronnie Cutrone) Ed è Arte che fa a meno di uno spettatore, perchè si guarda da sola (si riguarda…): i palloncini che galleggiano sono nello stesso istante sia l'opera che lo spettatore, vagando di stanza in stanza della Mostra, incappando l'uno nell'altro e urtandosi contro. Come i personaggi dei film della Pixar, Arte che si auto-perpetua, facendo a meno di uno sguardo umano. Sono i goffi uomini di Wall-E, che prima di re-imparare come stare in piedi, devono ri-abituare i propri occhi al mondo – o la presenza aliena del sub di Finding Nemo, splendente exploit registico di Stanton che ne mise una volta per tutte in campo tutta la sublime visionarietà. Ma prima di sommergere tutti col liquido primordiale del suo Cinema – come bitches brew, cagne in calore sulla copertina del disco di Miles che rifondava il jazz immergendolo nelle nuove tecnologie elettriche, un brodo nativo che ribolliva di 100 anni di Storia tutti da ricominciare come se fossero nuovi, Stanton ci aveva già donato il gesto teorico estremo di un sequel, che è sempre un ri-ragionarsi addosso progettando una protesi, un protendersi. Sceneggiatore principale del primo Toy Story, Stanton è infatti tra gli artefici dello script di Toy Story 2, opera filosofica tutta giocata sul raddoppio, che trova nel negozio di giocattoli la propria sublimazione: non solo due, ma infiniti Buzz Lightyear tutti uguali, mentre Woody perde un braccio che solo un umano può riparare. E l'incipit del film è l'ultimo livello di un videogame dedicato proprio a Buzz…Universi miniaturizzati che si riproducono, espandendosi: come 'l'isola' di Flik nel primo lungometraggio diretto da Stanton, A Bug's Life, salvato dalla morte certa da un gruppo di insetti circensi scambiati per un esercito – ancora una volta, un'immagine sdoppiata. Basterebbe la prima sequenza di Monsters Inc – altro script di Stanton: il mostro fallisce una simulazione di spavento nella stanza ricostruita di un bambino/automa-fantoccio, e scopre il suo errore riavvolgendo la registrazione della prova. Lo redarguisce il Boss Waternoose: “Non c'è nulla di più tossico e letale di un umano!” – anche se si tratta unicamente della sua riproduzione meccanica.