Annabelle 2: Creation, di David F. Sandberg
Presentato in anteprima internazionale al 47° Giffoni Experience, il prequel di Annabelle rivela qualche buona intuizione, ma non sa rinnovare i meccanismi della paura. In sala dal 3 agosto 2017
Riprodurre o rinnovare i meccanismi psicologici della paura attraverso una costruzione visiva e sonora non è un’operazione semplice in una fase storica nella quale questo sentimento primordiale è costantemente sollecitato dalle traiettorie impazzite di una realtà più cupa e cruda di ogni immaginazione. Ancora meno semplice è veicolare nello spettatore la sensazione disagevole e, insieme, calamitante dello spavento tramite la proposizione di una storia, non necessariamente originale, ma capace di rimescolare gli stereotipi del genere, di attualizzarli, di reinterpretare le paure del pubblico così come si sono evolute e riformulate nel corso del Terzo Millennio. Di cosa abbiamo bisogno, per così dire, per spaventarci nella sala buia di un cinema? A parte l’utilizzo di espedienti, più o meno sempre efficaci, come le suggestioni sonore e gli scarti improvvisi della macchina da presa, che cosa ci aspettiamo da una storia, da una sceneggiatura e dalla sua riduzione cinematografica, per poter abbandonare la propria poltrona con la sinistra percezione che quello che abbiamo visto ed ascoltato ha risvegliato in noi una delle più antiche emozioni di cui l’uomo abbia memoria?
Annabelle 2: Creation, quarta pellicola ambientata nell’universo orrorifico creato dalla mente di James Wan (qui nelle vesti di produttore) con L’evocazione – The Conjuring (2013) e prequel dello spin-off Annabelle (2014), si approccia al succulento τόπος iconico della bambola demoniaca con l’intenzione apprezzabile di “lavorare” principalmente sui processi mentali ed emotivi della suspense, prima ancora che mettere in scena la spettacolarizzazione dell’orrore ed i suoi risvolti più cruenti e realistici: solo un paio di barbare uccisioni, pochissimo sangue e qualche momento di violenta colluttazione tra “mostruosità” ed “innocenza”, tutti concentrati nell’ultima mezz’ora, mentre a catturare l’attenzione e a suscitare un pizzico di suggestione degno di nota sono soprattutto la ricreazione degli ambienti e la cadenzata struttura del racconto. Intendiamoci, anche quest’ultima non è affatto sufficiente per fare di questa ennesima variazione sul tema delle possessioni soprannaturali una pellicola che rimarrà impressa nella mente – e nella memoria – tuttavia sembra bastare per innalzare la qualità, piuttosto scadente, del primo episodio di tre anni fa.
Samuel Mullins (Anthony LaPaglia), un noto fabbricante di bambole, e la moglie Esther (Miranda Otto) ospitano nella loro casa coloniale suor Charlotte (Stephanie Sigman) ed un gruppo di ragazzine provenienti da un orfanotrofio andato distrutto. Entusiaste di abitare in una dimora così imponente, le bambine si precipitano di sopra ad esplorare gli ambienti e le nuove camere. Una di loro, Janice (Talitha Bateman), affetta da una grave forma di poliomielite, si imbatte in una porta chiusa a chiave. Nonostante il monito del padrone di casa a non varcare quella soglia, la bambina si intrufola nella camera e vi trova numerosi giocattoli, in particolare una deliziosa casa delle bambole. Il suono di un giradischi ed altri rumori sinistri provengono dalla stanza proibita e una forza oscura e maligna inizia ad aggirarsi per la casa prendendo di mira le bambine. Janice prosegue le sue ricerche e rinviene una piccola chiave che dovrebbe aprire le ante di un armadio. La bambina, nonostante le preoccupazioni manifestate dalla sua migliore amica, Linda (Lulu Wilson), dischiude il mobile e davanti ai suoi occhi si rivela un’inquietante bambola su una sedia a dondolo. Chi è Annabelle? E soprattutto come si collega al passato dei Mullins?
Il trentaseienne regista svedese David F. Sandberg – con all’attivo numerosi cortometraggi indipendenti di cui ha curato, di volta in volta, vari ruoli produttivi, tra cui sceneggiatore, direttore della fotografia, compositore, produttore, montatore e tecnico del suono – attirò l’attenzione di James Wan nel 2013 con il cortometraggio Lights Out. Fu proprio il regista malese naturalizzato australiano a spingere Sandberg a dirigere un omonimo lungometraggio (2016), tratto dal suo lavoro precedente. Ed è proprio al team tecnico di Lights Out – Terrore nel Buio che Sandberg si rivolge nuovamente, in particolare la scenografa Jennifer Spence e il montatore Michel Aller, mentre la sceneggiatura è affidata, come per il primo capitolo, a Gary Dauberman, impegnato di recente nello screenplay di It e The Nun.
La pellicola mescola immancabilmente numerosi cliché del genere horror, come la grande casa labirintica su più piani, la stanza chiusa a chiave che cela un terribile mistero, la possessione demoniaca di un oggetto inanimato che aspira ad incarnarsi nel “vivente”, lo sguardo più o meno innocente di un gruppo di bambine di fronte all’ineffabile e l’esorcismo neotestamentario che tenta di confinare il male nell’oscurità di un anfratto da seppellire e dimenticare. La fotografia di Maxime Alexandre (The Other Side of the Door, 2016) si rivela funzionale ed efficace, virando da una luminosità patinata e ambrata nella descrizione degli arredi e dell’atmosfera della casa colonica – sospesa tra le suggestioni degli anni Cinquanta ed una certa ridondanza vittoriana – ad una tenebrosità squarciata da bagliori di lumi ad olio e di lampade elettriche intermittenti. Nella ricostruzione dell’esterno della dimora pare evidente uno dei tanti omaggi cinematografici alla “poetica della solitudine” di Edward Hopper e alle sue case silenti nel mezzo della campagna (si veda, ad esempio, Dead Tree and Side of Lombard House, 1931), così come il richiamo ad uno dei più celebri dipinti americani del XX secolo, quel Christina’s World di Andrew Wyeth (1948) che tanto ha influenzato il “realismo magico”. Sandberg sfrutta il potere ambiguo del “fuori fuoco” per suggerire ed animare forme e movimenti nella penombra, trasforma i dialoghi delle giovani orfane in sussurri, preghiere sommesse, promesse affettuose e qualche pettegolezzo cinico a restituire la dimensione di una giovinezza sofferta e carica di ansie ed illusioni ed affida il montaggio a stacchi improvvisi tra osservante ed osservato, tra dettaglio oggettivo e sguardo soggettivo, portando progressivamente la minaccia demoniaca a rivelarsi in tutta la sua immane potenza. Sono soprattutto gli oggetti – come le stanze allungate ed ammobiliate, la dollhouse, il giradischi che rimanda in continuazione You Are My Sunshine di Jimmie Davis, il montavivande, la sedia a rotelle elettrificata a muro – a spaventare, nella misura in cui predispongono lo spettatore alla “malia del presentimento”. E poi c’è lei, la bambola: status symbol del divertimento infantile, soprattutto femminile, eppure storicamente capace di suscitare un’angosciosa pediofobia, spesso anche e soprattutto negli adulti, forse perché – come spiega lo psicologo Frank McAndrew – “le bambole fanno scattare in noi un retaggio ancestrale associato ad una situazione di ambiguità, quando siamo incerti se ciò che vediamo rappresenti o meno una minaccia: le bambole ci sembrano vive ma nello stesso tempo sappiamo che non lo sono”. Qui siamo lontani dall’ironia e dal turpiloquio della sanguinaria Chucky, Annabelle è decisamente più spettrale e sinistra, probabilmente anche più perversa, e si rivela un tramite quanto mai efficace per un’entità malefica. Come ha detto John R. Leonetti, regista di Annabelle, “le bambole sono figure umane ma mancano di emozioni. In pratica sono gusci vuoti, sono cave dentro. Ed è uno spazio che deve essere riempito”.
Il film, presentato al Los Angeles Film Festival il 19 giugno scorso, non manca di offrire, inoltre, qualche spunto di riflessione interessante sulla natura e la dimensione psicologica di alcune paure che possono “generare mostri”: l’inquietudine tipica di un bambino orfano nel sentirsi solo ed abbandonato dalla struttura familiare e sociale e, al tempo stesso, il desiderio di trovare una nuova famiglia che lo accetti in quanto tale con tutto il suo carico di vissuti drammatici; la menomazione fisica vissuta come peccato da emendare o, al contrario, prova di coraggio e atto di fede nell’imperscrutabile disegno divino o, da una diversa angolazione, come handicap sociale e bersaglio più fragile esposto alla cattiveria dei coetanei e alle possibili declinazioni della violenza; la difficoltà ad elaborare un lutto familiare, per quanto terribile ed inspiegabile, che può spingere ad ogni forma di compromesso, anche morale, pur di esorcizzare la perdita. Sono proprio queste letture, più o meno esplicite, a costituire i tratti più interessanti di Annabelle 2: Creation, oltre alla già citata “poetica del presentimento” che per un’oretta scarsa appaga e stimola la curiosità dello spettatore. Ma questa discreta e suadente fascinazione non sorregge, purtroppo, l’operazione nel suo complesso: con il proseguire della storia la sceneggiatura comincia a scricchiolare paurosamente, non diversamente dall’armadio segreto, rivelando qualche falla qua e là, una sconcertante pochezza di dialoghi e di spessore psicologico dei personaggi ed uno sviluppo in fieri piuttosto trito e raffazzonato. Lo stesso Sandberg si rivela meno efficace nella rappresentazione diretta del male e delle sue atroci conseguenze, allorché dalla costruzione del presagio si passa all’esperienza dell’azione e la buona qualità media degli interpreti viene relegata ai margini o inspiegabilmente non sfruttata, per cui quasi tutto il peso del coinvolgimento empatico finisce sulle spalle della piccola Lulu Wilson, già protagonista di Ouija – L’Origine del Male (2016) e destinata, pare, a diventare un’icona horror della Millennial Generation.
In sostanza, si ha la netta sensazione che il franchise di 800 milioni di dollari creato da The Conjuring debba produrre altri profitti e sforare la soglia del miliardo: a testimoniarlo, l’imminente uscita nelle sale di The Nun, spin-off di The Conjuring – Il Caso Enfield (2016), la lavorazione di The Crooked Man, altra “costola” del secondo capitolo, e la possibile realizzazione di una terza pellicola del filone principale.
Titolo Originale: Annabelle: Creation
Regia: David F. Sandberg
Origine: USA, 2017
Interpreti: Anthony LaPaglia, Miranda Otto, Talitha Bateman, Lulu Wilson, Stephanie Sigman
Distribuzione: Warner Bros.
Durata: 109′