ANTEPRIME – La reale favola di Tim Burton: "Big Fish"

Big Fish è più dorato, meno nero degli altri film di Burton, i suoi mostri non hanno le unghie affilate di Edward mani di forbice o la devastante malinconia di Batman. Il suo tono triste è dettato dal lungo addio tra un padre fiammeggiante raconteure e un figlio giornalista che non credendo a nessuna delle sue storie lo rifiuta e non lo (ri)conosce.

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 di GIULIA D'AGNOLO VALLAN
 
C'è una libertà molto simile a quella che anima Kill Bill in Big Fish, il nuovo film di Tim Burton, il senso quasi di un respiro di sollievo (post Planet of the Apes) che attraversa la narrativa inafferrabile di questa fiaba «minore», tratta dal romanzo omonimo di Dan Wallace. Streghe, giganti, foreste viventi, sorelle siamesi, un carnevale itinerante tra Freaks e la nuova serie Hbo Carnival, (dopo l'omaggio a Bava in Il mistero di Sleepy Hollow) lo spirito di Fellini in Amarcord…, una città che si chiama Spectre dove tutti sono molto pallidi e nessuno usa le scarpe. E poi il profondo, esoterico, sud degli States: Big Fish è più dorato (fotografia Philip Rousselot), meno nero degli altri film di Burton, i suoi mostri non hanno le unghie affilate di Edward mani di forbice, la devastante malinconia di Batman e dei suoi antagonisti o la micidialità degli alieni di Mars Attacks. Il suo tono triste e inevitabile è infatti dettato dal lungo addio tra un padre fiammeggiante raconteur nella miglior tradizione del meridione Usa (interpretato da Albert Finney quando è vecchio e da Ewan McGregor quando è giovane) e un figlio giornalista (Billy Crudup) che non credendo a nessune delle sue storie lo rifiuta e non lo (ri)conosce.
Ma al centro di questa vicenda di riconciliazione famigliare, che è anche riconciliazione con il piacere fisico, temporale, del perdersi in un racconto di favola, è il tema profondamente burtoniano della compresenza tra reale e irreale, una compresenza che, agli occhi dello stesso regista, fa di questa fantasy un oggetto «estremamente realistico». «Big Fish è un film su ciò che è reale e su ciò che è fantastico, su ciò che è vero e su ciò che non lo è, su ciò che è parzialmente vero e che, alla fine, risulta essere tutto vero», ha detto Burton al New York Times. E, in un'altra intervista: «Si tratta di un buffo mosaico di film. Non lo puoi circoscrivere in nessuna immagine o idea precisa. È come un puzzle. Sai di che tratta eppure ci arriva ognuno in modo diverso, come succede nella vita. Ti sorprende sempre, e anche quando ti dicono di cosa parla non puoi inserirlo in una struttura normale». In effetti, aiutato anche dalla forma episodica del libro di Wallace, ripresa nella sceneggiatura di John August, tra tutti i film di Burton, Big Fish sembra quello in cui in cui il passaggio tra le dimensioni della realtà e della fantasia è meno doloroso, più fluido.

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Nelle immagini di una suburbia asettica e ordinata, che ricordano (anche se in colori intenzionalmente molto più caldi) quella di Edward mani di forbice, non si materializza una folla inferocita di massaie che insegue il ragazzino «mostruoso»: questo è un film in cui i poeti rapinano banche e poi diventano miliardari a Wall Street e in cui i giganti possono trasformarsi in distinti, benevoli, uomini d'affari in giacca a cravatta tagliati su misura. Come se Vincent, l'eroe originario di Burton, il bambino infelice chiuso in una stanza, del suo primissimo corto animato, avesse trovato il suo posto nel mondo.
Un tocco di autobiografia, Burton ha ammesso, il film ce l'ha. Se non altro perché la sceneggiatura gli è arrivata in un periodo molto vicino alla morte di suo padre. Anche Albert Finney, nel film è Edward Bloom, un padre in fin di vita al cui capezzale, invitato da mamma Jessica Lange, appare il figlio con cui non ha parlato da tre anni. Nella penombra di una stanza tutta blu (il film gioca anche con i colori per sfumare ancora di più la differenza tra realtà e fantasia) i due sono a confronto.
«Che c'è di vero nelle fantasmagoriche fandonie che mi hai enumerato in tutti questi anni?» chiede il ragazzo che, per bisogno di «verità», è diventato corrispondente estero per l'Associated Press. Sono solo modi diversi di raccontare le storie, risponde ineffabile il genitore e ricomincia, per l'ennesima volta, l'evocazione della sua meravigliosa, meravigliata e molto picaresca esistenza… Un'esistenza di favola («non volevo essere un grosso pesce in un piccolo stagno» dice il padre morente) la cui immagine finale era impressa nell'occhio di vetro della strega vicina di casa, un occhio, si diceva, capace di rivelare il futuro e a cui Edward Bloom aveva chiesto di vedere solo il giorno della sua morte. È da quell'occhio magico e orrendo che, ancora oggi, viene la forza del cinema di Tim Burton.

da il manifesto del 30/11/2003

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