"Antonioni Day", una lettura controcorrente

Fuori dalla santificazione nazionale che lo mummifica, proviamo a disturbare la quiete di questo monumento, rileggendo il suo cinema come qualcosa di indefinibile, che esprime il disagio di chi sente che lo sguardo non serve più a nulla. In questo Antonioni è senza dubbio uno dei grandi nichilisti, straordinari inventori di forme del cinema moderno

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Michelangelo Antonioni ha compiuto novant’anni. In questi giorni le carampane del giornalismo italiota si stanno affrettando nel correre dietro alla notizia, cercando di inserire l’autore ferrarese all’interno di un bel museo delle cere (impresa già riuscita peraltro da almeno trent’anni) in cui organizzare visite guidate con tanto di ciceroni messi lì, a bella posta, ad eseguire in modo impeccabile il lavoro per cui sono pagati. E’ come se li sentissimo già: Antonioni è uno dei maestri del cinema italiano, le sue opere rappresentano un capitale inestimabile da difendere e studiare con rispetto e devozione. Attenzione però a non toccare qui, state attenti là, muovetevi piano, insomma fate attenzione a non disturbare la quiete di questo monumento. Guardate insomma, ma non toccate. Che bello, aggiungiamo noi, partecipare con intrigante malizia a questa santificazione nazionale che mummifica il Michelangelo nazionale ben prima del tempo. Vorremmo far parte del gruppo, unirci festosamente all’allegra brigata di anime belle in cerca di conferme, di punti fissi, di detriti intoccabili insomma. Purtroppo ci tocca una sorte diversa. Volenti o nolenti, il patto fatto col diavolo ci costringe a restare per certi versi isolati dalla marea festante, convinti (poveri noi) che i conti col cinema non possono esaurirsi nel dare per scontato qualcosa. Nel nostro piccolo cerchiamo di vivere ogni giorno il cinema come fosse l’ultima volta, arrampicandoci sugli specchi dell’isolazionismo ad oltranza, nel tentativo di agire il cinema più con il corpo che con la mente, non prostituendoci mai alla logica dominante della mafia ermeneutica. Buon senso vorrebbe che dedicassimo ad Antonioni un bel coro affiatato di voci ben intonate, in grado di levare alto il giubilo festante della lode sperticata, della celebrazione sempre e comunque, del trionfo incondizionato. Tutto ciò, il buon senso. Già, ma la perversa metà della nostra coscienza, quella che ci lavora dentro ogni istante, quella che ci rode col terribile tarlo del dubbio, ci manda fuori strada, ci fa deviare in corsa, ci fa precipitare in un abisso. E allora, minati da una pervicace forma di masochismo intellettuale, non ci resta che farci qualche bella domandina (peccato mortale, ma tant’è).

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Invece di recarci col sacchetto della merenda al picnic domenicale dedicato al maestro, ci armiamo di santa pazienza, di una bella dose di coraggio, e ci mettiamo a rivedere qualche suo film, coscienti che prima o poi qualcosa accadrà. Ci scorrono di fronte le immagini di Professione reporter, e ci accorgiamo di essere già fuori fase, fuori tempo massimo, visto che si tratta di una delle ultime opere di Michelangelo. Il deserto, un individuo in cerca di un’identità, lo svelamento conseguente dell’impossibilità di essere, in una realtà infilmabile, lontana, sfuggente. Bel discorsetto filosofico, grande senso della messinscena, incredibile giro di macchina (da presa naturalmente) sul non senso dell’apparire. Tutto molto bello, non c’è che dire, se non fosse per l’elemento umano quasi azzerato. Cerca di appigliarsi alla ripresa ambientale di luoghi/set avventurosi il regista, senza però focalizzare mai la propria appartenenza a ciò che racconta. Ecco dunque la dilatazione del film, il suo esulare di continuo dall’universalità della percezione, per fissarsi all’interno di un quadro storico assolutamente destabilizzante come quello degli anni ’70. Il film continua a scorrerci davanti quando, giunti alla celebrata sequenza finale del piano sequenza infinito, cerchiamo di rivedere quanto pensato precedentemente.

Si inizia con un movimento filmico arioso e libero, si continua nelle griglie stabilite dall’universo temporale dell’epoca (la Barcellona di Gaudì, il deserto come luogo di smarrimento e di perdita), per poi finire con un movimento di macchina che svela l’illusorietà infausta dell’attaccamento alla prospettiva precedente. Puro surrealismo travestito da oggettività dello sguardo. Un bel rimescolamento delle carte in tavola, non c’è che dire, eppure qualcosa ancora ci sfugge. Facciamo un bel salto all’indietro (una decina d’anni circa) e arriviamo alla swinging London di Blow up. Anche qui, bella riflessione sull’incapacità di vedere, condita da punte filosofiche se non altro insolite per l’epoca. Poi Antonioni cerca di dare un nome al suo svagato protagonista, cerca di contestualizzarlo in una precisa geografia del set, ed ecco che ci balza agli occhi tutta l’atmosfera satura di colori degli anni’60 con i cromatismi pastello che fanno tanto epoca. Invedibile oggi, senza dubbio, ma scorgiamo la possibilità di uscire dalle secche del non emerso in cui ci agitiamo senza tregua. Quando Antonioni filma l’irrealtà di uno sguardo mancato è quasi inarrivabile, quando si mette a giocare (seriamente, purtroppo) con l’esplicitezza tutta formale dell’umano, diventa quasi imbarazzante nella sua incapacità di raccontare qualcosa che si avvicini anche lontanamente alla spontaneità passionale del cuore. Quando poi, nel Blob a Venezia, veniamo martellati dal ralenti impressionante della scena finale di Zabriskie point, giungiamo con un minimo di consapevolezza ad un primo, timido, punto d’arrivo. La forma pura del cinema di Michelangelo è un qualcosa di indefinibile, che comunque non c’entra nulla con la Realtà. Si tratta di filmare il disagio di chi sente che lo sguardo non serve più a nulla, o forse soltanto lo smarrimento percettivo del trovarsi di fronte ad una polisemia significante tale nella Realtà, da riuscire ad esprimere col mezzo filmico soltanto il residuo astratto di quello che era un occhio umano. In questo Antonioni è senza dubbio uno dei grandi nichilisti, e straordinari inventori di forme del cinema moderno, da vedere e rivedere accanto ai vari Ejzentsein, Welles e Rossellini. Non ha trasformato il cinema, ma ha posto delle linee teoriche imprescindibili nella storia della settima arte.

Fin’ora nulla di nuovo, ma non è tutto. Accanto a questo bel discorso, ne poniamo un altro, che ci racconta di un altro regista, per certi versi sconosciuto ai vari manuali di storia del cinema. Quando Antonioni decide di reinventare tutta una realtà partendo dalle macerie di quella precedente, parte da rimasugli materici insufficienti, per certi versi lacunosi. Quando in Deserto rosso si avvicina al punto di non ritorno del proprio cinema (si tratta, non a caso, del suo primo film a colori), lo fa avvicinando il piano della surrealtà immaginifica, a quello di un realismo umano insignificante. Va bene l’evasione dal mondo della percezione ordinaria, ma questo dannato mondo bisognerà prima o poi avvicinarlo, prima di oltrepassarlo del tutto. Che cosa c’è prima del rosso infuocato della prospettiva fantascientifica dell’industria, e prima del nomadismo zombico della protagonista? Sono domande senza risposta. C’è stato cambiamento, transizione, passaggio, ma è un cinema che parla solo del dopo, configurando nuovi itinerari di spostamento, senza mai chiedersi però nulla della condizione precedente. E’ incapace di parlare al cuore Michelangelo, di lottare corpo a corpo con le seduzioni ambigue del Presente, di arrestare la predisposizione robotica/filosofica del suo cinema per immolarsi sull’altare della condivisione passionale dell’enunciato.

Quando ci scorrono di fronte le immagini di Zabriskie point non possiamo fare a meno di chiederci il perché dell’aver elaborato un sistema di scrittura così complesso e importante, per poi rimanere comunque attaccato ad un’annacquata morale folklorica che ci parla di ribellione e di contestazione, senza avere la minima idea di ciò che si sta dicendo. Dando un’ultima occhiata a Identificazione di una donna, troviamo una risposta, forse definitiva. Finalmente non troviamo alcun aggancio epidermico alla moda sociologica del momento, ma soltanto una serie di automi senza nome, capaci di scambiarsi personalità e automatismi come niente fosse, prefigurando addirittura l’ultimo carosello kubrickiano, in fatto di spersonalizzazione e cerebralismo della messinscena. Il protagonista dell’opera, un regista in crisi interpretato dal grandissimo Tomas Milian, finisce per rinunciare al suo progetto cinematografico originario, per avventurarsi in un film di fantascienza. Ecco la folgorazione finale del Maestro, e per quanto ci riguarda, l’immagine più autentica del suo cinema. Fanta-scienza, fanta-realtà, fanta-cinema. Lo svelamento di un astronave, di un orbita stellare, di uno spazio intergalattico come set sublime e impossibile (dunque finale) in cui affogare definitivamente tutte le astruserie umanistiche accumulate nei film precedenti. Mentre scorrono i titoli di coda dell’opera, il codazzo entusiasta della stampa italiana avrà già prodotto nelle prime pagine di tutti i giornali il resoconto entusiasta dell’Antonioni day, il giorno del ringraziamento per il grande regista della realtà. Poi, inizia a farsi sentire uno strano odore di muffa.

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