Appennino, di Emiliano Dante

Il ripetersi sempre uguale e sempre diverso delle stesse situazioni non è altro che la vita e questo film, come la vita, è quello che ti accade mentre sei occupato ad elaborare altri progetti

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Appennino è il terzo film che Emiliano Dante gira “intorno” al terremoto. Aveva iniziato nel 2009, subito dopo la scossa che aveva colpito duramente la sua città (L’Aquila), con Into the Blue, nel quale raccontava la quotidianità della vita in tenda subito dopo il sisma e lo spezzarsi ed il ricomporsi dei legami personali e, attraverso questi, del tessuto sociale. Cinque anni dopo (nel 2014) torna sull’argomento, con Habitat, ancora per esplorare l’evoluzione delle relazioni interpersonali nell’affannoso tentativo di una ricostruzione esistenziale ancor prima che materiale. Appennino doveva essere il terzo film a riflettere sull’evoluzione di questa “ricostruzione sociale” ma, a causa del terremoto che colpisce il centro Italia appena dopo l’inizio delle riprese, ben presto il film si “resetta” e, come in una macchina del tempo, torna la precarietà, le tende, tornano soprattutto le relazioni umane che si sfaldano e si ricostruiscono, torna la vorticosa alternanza fra la frustrazione per quanto si è perso e l’euforia per i nuovi progetti.

Come aveva già intuito Massimo Causo: “[Habitat] sfugge alla scrittura documentaristica

manifesto-appenninoper assumere la forma di un’indagine conoscitiva degli stati di coscienza ed esistenziali di un pugno di persone, il lavoro di Dante non si pone un obiettivo documentaristico in senso stretto: il fine del suo lavoro non va rintracciato nel racconto dell’evento ma nella documentazione degli effetti a lungo termine dell’evento stesso.

L’obiettivo dichiarato del film è, dunque, di nuovo quello di raccontare le relazioni umane ma, forse a causa del senso di déjà vu che si innesca con il terremoto dell’Aquila o forse perché nel terremoto del centro Italia le scosse si sono succedute per un periodo di oltre un anno, il film si trasforma ben presto in una riflessione sullo scorrere del tempo e sulla sua natura circolare: quello che sto vedendo è il passato, il presente o il futuro?

A ben vedere, l’ossessione per il tempo è sempre stata presente in tutti i lavori di Dante: in ogni film c’è, in un modo o nell’altro, un contatore che segna il tempo filmico (in questo caso sono i 500 tagli di montaggio) come se senza un segno, un appiglio (una briciola di pane per Pollicino) lo spettatore rischiasse di perdersi (di qui sono già passato) nel gorgo del tempo: quello che sto vedendo è il passato, il presente o il futuro? Sotto questo aspetto Appennino è molto simile a Limen – Omission: l’unico film di finzione realizzato da Emiliano Dante, in cui la storia di un fondamentalista cattolico viene vista e rivista per avvicinarsi, ad ogni nuova visione, a quella che è (forse) la verità e soprattutto il significato delle sue azioni. Tutto in Appennino è ricerca di significato: a cominciare dai continui dubbi che assalgono il regista (mai come in questo film candidamente confessati allo spettatore) sul senso da dare alle immagini, che, invece, sembra si girino da sole.  E allora, forse, il vero senso del film va al di là del mostrato e del narrato, va oltre il terremoto, va oltre il fallire dei progetti e l’entusiasmo per quelli nuovi, va oltre le relazioni che si spezzano o si creano. Forse questo ripetersi sempre uguale e sempre diverso delle stesse situazioni (quello che sto vedendo è il passato, il presente o il futuro?), non è altro che la vita e un film (questo film), come la vita, è quello che ti accade mentre sei occupato ad elaborare altri progetti.

 

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