Applausi infiniti ai festival: cosa ci rivela questa ossessione?
L’apprezzamento spontaneo del pubblico si è trasformato in un dato che determina il successo del film. Viene meno il pensiero critico e il dissenso, per assumere il ruolo di semplici followers

La standing ovation per le anteprime mondiali sono la consuetudine nei festival cinematografici più influenti del mondo: il Festival di Cannes e la Mostra del Cinema di Venezia ne sono la prova. Questa tradizione si trascina ormai da decenni e può rappresentare la riuscita del film secondo il parere del pubblico in sala; basti pensare infatti ai 15 minuti ricevuti da C’era una volta in America di Sergio Leone nel 1984. Ma a differenza degli anni ’80, questa forma di approvazione si è tramutata nel tempo in un qualcosa di forzato e prolungato, per non dire eccessivo. A dimostrazione di ciò è la menzione del minutaggio sui manifesti e comunicati stampa ufficiali, che hanno trasformato quell’apprezzamento in una sorta di “voto”, in grado di definire il valore di un film.
Infatti, come afferma un dirigente di un importante distributore indipendente statunitense, cronometrare la durata della standing ovation “riduce il film a un singolo dato, ma è un dato molto appiccicoso”. Inoltre la gente ricorda: “Quel film ha avuto una standing ovation di 10 minuti a Cannes ”. Perciò i film finiscono per scontrarsi e paragonarsi tra loro in base alla durata del plauso, spesso manipolato dalla star o dal regista dell’opera. Nicolas Cage per esempio ha fatto intonare al pubblico “Surfer! Soffri! Surfer!” alla proiezione di The Surfer, così che il pubblico continuasse ad applaudire. La reazione contraria è stata quella di Bong Joon-ho con Parasite del 2019. Il regista infatti ha interrotto spontaneamente la standing ovation dopo otto minuti: “grazie, andiamo tutti a casa” disse al pubblico, spiegando loro che lui e il suo team erano molto affamati.
L’applauso diventa quindi imposto e così esasperato da essere applicato ad ogni film di alto livello, diventando eccessivo senza più essere espressione di gioia, ma di declino spettatoriale. Il pubblico infatti si avvicina progressivamente all’essere un mero follower, partecipe di una performance sociale e vittima del consenso pubblico. Come sui social lo spettatore partecipa per essere parte del trend e non per vivere l’esperienza filmica e valutare con un occhio più critico il film. Parallelamente anche le espressioni negative come i fischi, giusti o meno che siano, sono scomparsi nell’ultimo decennio nonostante fossero segni di onestà del pubblico. Questa eccessiva “positività” appiattisce i discorso attorno alle opere artistiche, frutto di un’espressione individuale che deve far dibattere e discutere.
Nella pagina Wikipedia dell’applausometro del Festival di Cannes, quest’anno è stato aggiunto al terzo posto Sentimental Value di Joachim Trier, il quale nella premiere mondiale a Cannes è stato salutato da 19 minuti di applausi. Al primo posto resta Il labirinto del fauno di Guillermo Del Toro con 22 minuti e Fahrenheit 9/11 di Michael Moore che raggiunge i 20 minuti. Nonostante questa tendenza sembra avvicinare pericolosamente l’osservazione attiva e il pensiero critico al suo declino, c’è anche chi vede la situazione da un altro punto di vista: David Kajganich, scrittore e produttore di Bones and All di Luca Guadagnino, ha detto che secondo lui “quando le persone si alzano in piedi per l’ovazione alla fine, in parte stanno mostrando come le ha fatte sentire il film. Ma stanno anche mettendo in scena l’affetto per le persone coinvolte […] Per me, la standing ovation è più per le persone che per il film”.