Aragoste a Manhattan, di Alonso Ruizpalacios

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Sembra di essere a un incrocio, dalle parti di Iñárritu o di certi smisurati romanzi della letteratura latinoamericana. Eppure il film riesce a essere al tempo stesso saldo e delicato.

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In un frequentatissimo ristorante di New York, The Grill, lavora una moltitudine di persone, tra cucina, sala e uffici. Si tratta in gran parte di immigrati senza permesso di soggiorno, latinoamericani per lo più, ma anche maghrebini, mediorientali, ecc… A cui si aggiungono, naturalmente, i locali, provenienti da ogni quartiere alla periferia dell’impero. Un miscuglio di volti, colori, parlate che lavorano fianco a fianco, si scontrano e si sostengono. Un intero mondo stipato in un luogo limitato, che cerca un precario punto di contatto nell’inglese, lingua “franca” imparata sul campo, ma che, di fatto, non tutti comprendono.

Sono già tutti qui, nella cornice, i motivi fondamentali del nuovo film di Alonso Ruizpalacios. Che, dopo le fughe road movie di Museo o gli spiazzamenti nel fuori/dentro la realtà di Una película de policías, decide di circoscrivere il raggio di movimento, rinchiudendosi tra i piani e le stanze di uno spazio unico, inquietante, tentacolare. Tranne pochi attimi in esterni e una lunga pausa nel vicolo retrostante, il film si concentra totalmente negli interni del ristorante. E Ruizpalacios si impone la sfida di disarticolarli e ricomporli, di moltiplicarne la superficie quadrata in un incessante susseguirsi di piani sequenza, di movimenti di macchina, di prospettive eccentriche. Disegnando così una sorta di mappa infernale, che, a poco a poco, si smarrisce in una deriva non molto dissimile da quelle dei film precedenti.

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L’altra traiettoria, come detto, è quella della Babele delle lingue, degli accenti e degli slang che si affastellano in una stratificazione vertiginosa. Come nella fantastica scena in cui, in cucina, tutti cominciano a offendersi per gioco, a dire le peggiori volgarità, ognuno nel suo idioma. Per il resto, Aragoste a Manhattan è un film in cui si parla tanto, fin troppo. E per forza di cose, nessuno sembra capace di ascoltare. Anche in quei brevi, essenziali momenti in cui potrebbe emergere una “verità”, ci sarà sempre qualcuno che non avrà capito. come quando Nonz racconta le due illuminazioni del napoletano immigrato. Le parole sembrano così perdere valore, mancare di consistenza e di funzione.

Al di là della traccia di The Kitchen, il testo teatrale di Arnold Wesker a cui è liberamente ispirato, Aragoste a Manhattan conferma la centralità dell’immaginario culinario nel racconto (da incubo) del presente. E, alla fine, per una strada o per l’altra, ciò che emerge è un’immagine del caos. Come se una massa di elementi a stretto contatto cominciassero ad agitarsi, provocando una serie infinita di reazioni ed esplosioni, fino all’impazzimento generale. O meglio, all’ingresso in un’inquietante dimensione surreale, con gli allagamenti da cherry cola e le corone di spine di spaghetti. È il modo di Ruizpalacios per raccontare lo sradicamento dei suoi personaggi, la loro clandestinità forzata, il senso profondo di disagio che si traduce nell’evidenza minacciosa, incombente, di New York. Come nel frastornante incipit in cui la giovanissima ragazza messicana, Estrella, si aggira per la metro e il “cerchio” di Times Square, in cerca dell’ingresso del ristorante e del suo vecchio conoscente Pedro, che lavora lì da anni.

Certo, la necessità politica dei discorsi rischia di essere appannata dall’evidente atteggiamento “performativo” di Ruizpalacios, che dà fondo a un armamentario di virtuosismi tecnici e di sottolineature stilistiche. I movimenti di macchina continui, come dicevamo, i long take muscolari, ma anche i costanti spiazzamenti percettivi. Fino alla scelta un po’ esornativa del bianco e nero, giustificato solo dall’illuminazione “aliena” del finale. Eccessi estetici a cui corrisponde una propensione all’eccesso narrativo, già evidente nei film precedenti. Sembra di essere a un incrocio, dalle parti di Iñárritu o di certi smisurati romanzi della letteratura latinoamericana. Eppure tutto questo non irrita. Perché Ruizpalacios è al tempo stesso saldo e delicato. Riesce mantenere lucida l’attenzione sulle sue storie e i suoi personaggi. Costruisce un complesso racconto corale, a cui a tutti è concesso uno spiraglio di luce, nonostante il centro della tormentata vicenda d’amore tra Pedro (Raúl Briones Carmona, già protagonista di Una película de policías) e Julia (Rooney Mara, star inquieta del cast), che assomiglia più a una lotta tra mondi lontani che a un doloroso rapporto di coppia. E, soprattutto, affida ad Estrella, la nuova “arrivata”, la purezza cristallina di uno sguardo cosciente. Che rischia di impazzire di fronte alle assurde dinamiche che incontra. E che pure, alla fine, si apre in un sorriso strano, enigmatico, antico come il suo volto e la storia della sua terra. Uno sguardo che arriva da un altro tempo e da una galassia lontana.

 

Titolo originale: La cocina
Regia: Alonso Ruizpalacios
Interpreti: Raúl Briones, Rooney Mara, Anna Díaz, Motell Foster, Laura Gómez, Oded Fehr, Eduardo Olmos, James Waterston, Spenser Granese, Leo James Davis
Distribuzione: Teodora Film
Durata: 139′
Origine: USA, Messico, 2024

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.5
Sending
Il voto dei lettori
2.5 (2 voti)

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