ARCIPELAGO 16 – Clermont-Ferrand "en bref", 30 lunghi anni di corti

Il festival di Clermont-Ferrand compie trenta anni e Arcipelago ha deciso di omaggiarlo presentando alcuni dei corti più celebri visti sugli schermi di questa manifestazione. La rassegna presentata al cinema Intrastevere è anche un buon modo per riscoprire i primi lavori di alcuni registi che oggi hanno ottenuto una fama mondiale.

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Il festival di Clermont-Ferrand compie trenta anni e Arcipelago ha deciso di omaggiarlo presentando alcuni dei corti più celebri visti sugli schermi di questa manifestazione. Alla fine degli anni settanta il festival nacque grazie alla “militanza” di alcune persone che si impegnarono a diffondere le opere di registi molte volte sconosciuti e soprattutto l’idea che il cortometraggio non fosse una produzione cinematografica minore rispetto al lungometraggio quanto un’altra forma di espressione artistica con una sua dignità. Nell’arco di questi tre decenni, a Clermont Ferrand, sono passati molti autori che oggi sono mondialmente conosciuti (Mike Leigh, Jean-Pierre Jeunet, Peter Mullan, Erick Zonka) e proprio grazie allo spazio che questo festival ha messo loro a disposizione hanno potuto, poi, evolversi come registi, costruendo le proprie poetiche e i propri stili. Clermont-Ferrand è quindi anche un luogo in cui si “investe” sui registi, dando visibilità ai loro lavori che altrimenti non troverebbero il dovuto spazio nei circuiti mainstream.

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Ilha das flores di Jorge Furtado è un intelligente lavoro di montaggio connotativo in cui la successione (e la ripetizione) delle immagini ha il compito di creare nella mente dello spettatore un senso ben preciso che lo porti a riflettere su quanto sta vedendo. Il regista usa il montaggio anche come metafora della produzione industriale (per esempio si mostra il percorso dei pomodori da quando vengono colti fino al momento in cui finiscono sul tavolo di una donna) e costruisce una feroce critica sui meccanismi delle società consumistiche e capitalistiche (il valore arbitrario del denaro, il lavoro come forma di guadagno e il guadagno come forma di consumo – un circolo vizioso dal quale una volta entrati non si può uscire, il problema dei rifiuti – qui orrendamente risolto), ironizzando sulla presunta evoluzione dell’uomo e sulle sue capacità manuali (i pollici opponibili) che in realtà invece di elevarlo dal suo stato di bestia non hanno fatto altro che trasformarlo in una bestia capace di consumare i beni che produce.

 

Foutasies di Jean Pierre Jeunet, come Ilha das flores, è un corto che si basa prevalentemente su invenzioni del montaggio. Qui le finalità sono più poetiche che di critica alla società e le forme del montaggio utilizzate passano da quello connotativo a quello delle attrazioni, in cui sono i contrasti tra le immagini a creare il senso del loro rapporto. In alcune occasioni si creano conflitti tra le immagini mostrate e la voce del protagonista con risultati ironici (per esempio c’è una bambina che gioca a palla su un muro dove è disegnato un fallo enorme e la voice off del narratore dice – "una cosa che mi piace, l’innocenza dei bambini"). Nel corto di Jeunet si riscontra più di ogni altra cosa una libertà di scrittura filmica assoluta, una costruzione personale del linguaggio cinematografico e una poetica in cui ironia, lirismo e intelligenza si fondono in maniera esemplare.

 

A sense of history di Mike Leigh ha invece una struttura molto più classica, con un’alternanza di piani fissi e leggere carrellate, in uno stile che ricorda di proposito quello dei documentari della BBC. Le inquadrature racchiudono le immagini delle terre appartenenti ad uno stravagante nobile che racconta direttamente in macchina (e quindi allo spettatore) la sua vita e la storia della sua famiglia. Con il suo evolversi il corto si sposta sempre più su un terreno di humour nero, in cui le storie narrate dal nobile sfiorano il macabro ed esprimono una costruzione dell’ironia basata sul contrasto, tra le parole dello stesso (la confessione di alcuni omicidi, il ricordo dell'odore della madre dovuto dalla costante assunzione di sciroppi oppiacei) e la sua immagine fortemente legata all'iconografia aristocratica.

 

Fridge di Peter Mullan è uno spaccato della vita di alcuni sottoproletari di Edimburgo. Girato in un bianco e nero sporco, che trasmette un senso di degrado e squallore, il corto di Mullan diventa un’incursione in un mondo fatto di perdenti e derelitti, dove l’anima umana si spacca tra il dolore causato da una condizione di estrema povertà (affogata nell’alcol, nella crudeltà contro il prossimo, ma anche in inaspettati gesti di altruismo) e le spinte vitali che anche nell'estremo degrado spingono l’uomo a continuare la sua esistenza. Mullan immerge il suo occhio in quei luoghi dove la miseria divora ogni cosa e imprime sulla pellicola quello stesso livore, quella stessa desolazione che sembra trasudare dai volti e dai palazzi che riempiono le inquadrature della sua opera.

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