Ari, di Léonor Serraille
È davvero splendido il personaggio disegnato da Léonor Serraille. Una specie di “idiota”, perennemente spaesato, eppure disposto ad aprirsi agli altri e a reagire. BERLINALE75. Concorso

È evidente che a Léonor Serraille interessa raccontare personaggi che faticano a trovare un centro, un equilibrio sicuro. Era così in Jeune femme (Montparnasse femminile singolare) e, seppur in maniera differente, in Un petite frère (Due fratelli) E questo Ari è un altro protagonista strambo, proprio come Paula nel film di esordio. Un concentrato di insicurezze e fragilità, che vive in uno stato perenne di spaesamento, sempre di “passaggio”. Ma proprio per questo un tipo eccezionale, fuori norma rispetto alle finzioni, alle convenzioni e all’autoindulgenza in cui, per buona parte, si barcamenano gli altri.
A ventisette anni, Ari è stagista insegnante in una scuola materna. Ma entra in crisi dopo essere andato in panico durante la visita di un’ispettrice. Il padre, stanco dei casini del figlio, lo mette sostanzialmente alla porta, mentre i medici gli consigliano di prendersi un periodo di riposo. Il ragazzo comincia così a vagare per le strade di Lille e di casa in casa, tra i suoi vecchi amici. Ma si rende conto che nessuno di loro ha trovato un’ipotesi di compiutezza, è arrivato a una definizione o a una forma di pacificazione. Come se fosse cosa semplice…
È un sognatore vagabondo, Ari. Una specie di idiota che attraversa la vita con la sua sensibilità a fior di pelle. Ma anche con uno strano dono della visione, con una gentilezza e una disponibilità fuori dal comune. Un’innocenza che è, in fondo, un’illimitata, temeraria apertura verso l’altro. Ma proprio quest’innocenza, gettata in balia del mondo, non può che diventare scomoda, essere fonte di imbarazzi, equivoci, reazioni infastidite a violente. Ari fa domande, troppe domande, non si accontenta dell’apparenza, delle risposte di facciata dietro cui tutti nascondono le proprie ferite e insoddisfazioni. Quei discorsi tangenziali, da ascensore, che, per uno strano motivo, “sono la vita”. Eppure, assomigliare a Gesù non rende dei Cristi, come dice polemicamente un amico durante un litigio. Anche per Ari vivere è avere un po’ il cuore di fianco, al lato. Esattamente come gli sembra di vedere ne L’Homme endormi, il quadro di Carolus-Duran su cui si ferma in contemplazione per ore. È stata, almeno fino a questo momento, una specie di fuga continua da sé, dall’intensità insostenibile dei sentimenti, dalle situazioni, dalle responsabilità. Sullo sfondo, c’è sempre il ricordo della madre, che non c’è più e che pure rimane la figura di riferimento, quella che ha segnato nel profondo l’animo e la sensibilità di Ari. Come è evidente in quel tenerissimo incipit dell’infanzia, quando racconta al bambino incantato le oscurità e il fascino dei quadri di Odilon Redon, che, non a caso, aveva chiamato Ari il suo unico, amatissimo figlio…
È davvero splendido il personaggio disegnato da Léonor Serraille. E, infatti, quasi non riesce a staccargli gli occhi di dosso. Rimane stretta sui primi piani, sui particolari, sulle minime sfumature delle emozioni che emergono dai gesti uno straordinario Andranic Manet. Ed è così anche quando inquadra gli altri personaggi, tutti messi, in un modo o nell’altro, sotto pressione emotiva da Ari. È un film di ritratti, in cui lo sfondo sfuma, si quasi fa indistinto, evapora. Proprio come la narrazione che ha un andamento vagamente surreale e sognante, procede per salti, confronti, scontri, pause di riflessione, immersioni e astrazioni. Ma soprattutto, è un film che batte a cuore aperto, che nutre la forza di reagire, pur nelle crisi, nelle deviazioni, nelle peregrinazioni e negli smarrimenti.