Arthur Rambo – Il blogger maledetto, di Laurent Cantet

Cantet affronta la responsabilità della parola nell’era social e la sovrapposizione persona-avatar, dimostrando come il cinema possa ancora essere il mezzo adatto per pensare nuovamente le immagini

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C’è qualcosa di perturbante nella prima inquadratura di questo Arthur Rambo. Il protagonista Karim D. (inquadrato in primo piano) sembra teso, spaesato, si mordicchia costantemente le labbra guardandosi intorno, ma dietro di lui c’è il vuoto. O meglio, c’è il verde intenso di un green screen che sarà istantaneamente riempito dalle scenografie virtuali del programma televisivo dove è ospite. Karim incrocia per pochi attimi il nostro sguardo, ci tira in causa, guarda la macchina da presa (o la telecamera della trasmissione?) prima che il countdown della diretta inizi. Tre, due, uno: la conduttrice sta leggendo uno stralcio del suo romanzo ormai sulla bocca di tutti nell’élite culturale francese (“mia madre è la divisione e io sono ciò che resta”), un libro che racconta con raro calore umano l’arrivo in Francia di una donna nordafricana e i sentimenti della seconda generazione di immigrati che popolano le banlieue parigine. Si stacca ora sul dietro le quinte, dove un display di servizio ci mostra l’inquadratura “finita” della diretta tv, proprio mentre il produttore scatta una foto a quello schermo, isola lo screenshot e lo posta sui social network pubblicizzando l’evento. Improvvisamente la nostra inquadratura si riempie di hashtag e sovrimpressioni configurando in quel flusso virale l’ascesa sociale di Karim. Una sequenza magnifica che coglie la mediatizzazione radicale di ogni evento e l’impossibilità di trovare referenti reali alle emozioni: sin dalla prima inquadratura, infatti, Karim è un corpo scontornato e innestato nel metaverso costruitogli intorno da media, editori, fan e lettori. Ogni sua parola verrà quindi immessa in un mercato delle opinioni che presuppone solo semplificazioni di ogni assunto.

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Ecco, sono due gli ordini del discorso che persegue Laurent Cantet. Il primo è tematico e socio/antropologico: la storia, liberamente ispirata alla reale vicenda del blogger Mehdi Meklat, è quella di un giovane che, partendo dai video privati postati sul web, diventa la voce delle banlieue sforzandosi infine di trovare un ponte culturale attraverso il linguaggio nobile della letteratura. Nella notte del suo definitivo trionfo, però, si scopre che Karim gestisce anche un profilo Twitter con lo pseudonimo di Arthur Rambo (il riferimento provocatorio è ovviamente al poeta Arthur Rimbaud) intervenendo con inaudita violenza verbale, inaccettabile scherno e ostentata semplificazione sulle maggiori questioni della contemporaneità. I suoi tweet manifestano sentimenti antisemiti, omofobi, violenti, radicalizzando ogni differenza culturale e (paradossalmente) aumentando nel tempo i suoi follower. Un percorso specularmente contrario al suo lirico best seller letterario. Insomma: chi è lo scrittore? Karim è Arthur? O Arthur è solo “un personaggio punk” creato per provocare e “testare i limiti del dibattito”, come si giustifica più volte?

Il secondo ordine del discorso è la riflessione sul ruolo del cinema nel nostro universo mediale. Ed è qui che Laurent Cantet ritrova la sua matrice di regista profondamente umanista e teso al pedinamento sentimentale. Proprio come in A tempo pieno e La classe, il suo sguardo sul mondo e sulle persone non intende mai forzare significati o opporre (pre)giudizi morali, bensì testimoniare verità intime, anche sgradevoli e irrisolte, per favorire un pensiero critico negli spettatori. Karim si muove nella notte mentre la bolla mediale inizia a sfocarlo, allontanandolo fisicamente per renderlo ancora di più un’immagine preordinata e senza sfondo (come del resto era già condannato ad essere sin dalla prima inquadratura). Il mondo lo sta pian piano cancellando dalle “bacheche” confinandolo in un nuovo comodo ruolo: il pericolo pubblico. Ma lo sguardo di Cantet (e quindi del cinema) rimane con lui. Ne pedina i movimenti e le traballanti giustificazioni con la madre addolorata, che non riconosce quella rabbia repressa, il fratello deluso che, invece, proprio quella rabbia vuole rivendicare pericolosamente, e la compagna sconvolta, incapace di riconoscere sullo schermo gli occhi dolci di chi le siede accanto.

Cantet osserva e tenta una mediazione estetica sulla nostra epoca partendo da questioni dibattutissime come la responsabilità delle parole nell’era dei social network, la post-verità e la sovrapposizione persone-avatar, il potere anestetizzante delle immagini nella cultura visuale e la difficoltà di creare fertile dibattito sul web. Ecco che il cinema nel XXI secolo può ancora essere il medium adatto per questa riflessione concedendo il tempo necessario per far pensare nuovamente le immagini. Nel riflesso finale di Karim sul finestrino di un’auto, mentre si allontana nella notte perché “non riesce più a pensare”, c’è il teorico ribaltamento dell’inquadratura iniziale: il personaggio acquisisce finalmente uno sfondo tangibile, umano, complesso, certamente ambiguo ma non più riducibile a un singolo tweet. Uno sfondo di vita che ha ancora bisogno del cinema per essere colto  e “condiviso” in immagine.

Titolo originale: Arthur Rambo
Regia: Laurent Cantet
Interpreti: Rabah Naït Oufella, Antoine Reinartz, Bilel Chegrani, Sarah Henochsberg, Sofian Khammes, Malika Zerrouki, Anne Alvaro
Distribuzione: Kitchen Film
Durata: 87′
Origine: Francia, 2021

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.7
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Il voto dei lettori
2.33 (6 voti)
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