ASIAN FILM FESTIVAL 2006 – "4:30" di Royston Tan

Il sorprendente regista di Singapore compie uno scarto nei confronti del folgorante esordio irresistibilmente videoclippato di “15”, ma mantiene un'unicità di sguardo che fa di lui un cineasta prezioso e immediatamente riconoscibile già al secondo film: i suoi sono melodrammi postmoderni sotto l'aspetto di musical/karaoke, cinema di abbracci e lacrime

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Tra Wong Kar-Wai e il Kim Ki-Duk di Ferro 3, con sprazzi ed echi dello Tsai Ming-Liang di Che ora è laggiù?, questo secondo lungometraggio del sorprendente regista di Singapore segna uno scarto nei confronti del folgorante esordio irresistibilmente videoclippato di 15, visto all'Asian FF venerdì scorso – seppure sembra trattarsi di una distanza unicamente apparente, non tanto a ben vedere nello stile quanto nella messinscena, che magari perde in urgenza e in vorticosità delle fonti assemblate, ma mantiene un'unicità di sguardo che fa di Royston Tan un cineasta prezioso e immediatamente riconoscibile già al secondo film: il suo è un cinema di abbracci, spesso a letto, spesso fotografati (con cellulari e fotocamere, ovviamente), ma soprattutto è un cinema di lacrime – ragazzi che piangono, lacrime inverse montate al contrario mentre salgono su su sino a ricongiungersi con l'occhio come si vedeva nella sequenza più bella di 15, lacrime riprese e amate/conservate dalla mdp, dai personaggi: cinema costruito su quello che resta, le piccole cose, in 4:30 come in 15 una struggente attenzione per tutti quegli oggetti che riempiono una stanza, la identificano, sino ad arrivare all'insostenibile finale di questo film, in cui l'invisibile presenza dell'altro si trasforma nella crudele assenza delle cose. Melodrammi postmoderni sotto l'aspetto di musical, se si volesse estremizzare, ma sempre e comunque karaoke, colonna sonora ricantata-sostituita-interpretata dai personaggi – ragazzini, adolescenti, pochi adulti, la maggior parte di loro con la testa segata via dall'inquadratura, come nei cartoons dei Peanuts.  Il piccolo Xiao Wu vive solo a casa con uno zio coreano che forse è in realtà suo padre. Le vite dei due scorrono senza incontrarsi, ignorandosi l'un l'altro. L'uomo tenta ripetute volte il suicidio, senza successo. E ogni notte alle 4:30 la sveglia suona per il ragazzino, che si alza e si introduce di nascosto nella camera da letto dell'uomo per rubare quello che può mentre egli dorme: piccole cose, pacchetti di sigarette che taglia con le forbici per indurlo a smettere di fumare, peli delle gambe strappati via, cd che sostituisce con sue registrazioni amatoriali. Una notte riesce addirittura ad addormentarsi al fianco dell'uomo (e subito scatta la foto col telefonino del loro abbraccio inconsapevole). Xiao Wu cerca il contatto, con il padre (e quanto è straordinaria la sequenza del loro unico vero scambio impossibile di parole in lingue diverse seduti sugli scalini del condominio…), ma anche con la mdp, che tiene le distanze ma nel contempo unisce i personaggi: inquadrature quasi sempre fisse, piccoli movimenti di macchina come nella splendida sequenza in cui con un piccolo carrello a destra scopriamo che i due non sono soli in piedi davanti alla finestra ad angolo, ma stanno entrambi guardando fuori. Proprio come fa Xiao Wu dopo che l'inquilino e le sue cose scompaiono, spariscono dalla casa, dall'inquadratura, dal film: guarda fuori, punta una torcia accesa in sala, si affaccia e scavalca il davanzale che dà sullo schermo, ci guarda, scruta il mondo con il fascio di luce, alla ricerca del contatto con noi. Non lo trova, probabilmente. E allora non gli resta che dipingere di nero le imposte della finestra-inquadratura. Tutto nero. Dipinge la fine. Dipinge la dissolvenza. Sublime autodissolversi.    

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