ASIAN FILM FESTIVAL 2006 – Fantasie d'Oriente: "A Chinese Tall Story" di Jeff Lau e "The Great Yokai War" di Takashi Miike (Concorso)

Cinema che rielabora sogni, recupera mondi, distrugge convenzioni e apparati spazio-temporali per farsi fantasia pura, immagine ri-creata da mitologie demiurgiche. Schegge impazzite e sublimi, due film fantasy-movie attraversano l'Asian 2006. In concorso

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Cinema che rielabora sogni, recupera mondi, distrugge convenzioni e apparati spazio-temporali  per farsi fantasia pura, immagine ri-creata da mitologie demiurgiche. Che il cinema orientale sapesse stupire anche con l'entertainment di classe, lo si sapeva dai tempi di Ang Lee e del suo fortunato La tigre e il dragone. Da allora il wuxia è diventato talmente popolare da diventare un genere a se stante, inimitabile, facilmente esportabile a livello internazionale, persino inflazionato in alcuni suoi manierismi estetici. Con A Chinese Tall Story e The Great Yokai War, entrambi presentati in concorso al IV Asian Film Festival, ci muoviano su uno stesso terreno 'commerciale' ma con esiti probabilmente ancor più fecondi e destabilizzanti. Qui infatti siamo dalla parti del fantasy contaminato, dell'epica che sposa la fantascienza regalando vampate di melodramma puro.

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E' soprattutto A Chinese Tall Story del regista cinese Jeff Lau, a corrispondere a questa natura ibrida e pazzoide. Liberamente ispirato allo storico romanzo Journey to the West (scritto nel '500 d.C. da Wu Ch'eng En), il film di Jeff Lau narra le avventure pirotecniche del monaco Tripitaka, i cui tre discepoli vengono fatti prigionieri da alcuni spiriti malvagi. Il monaco inizia così un lungo viaggio per andare a salvarli, imbattendosi in Meiyan, ragazza dal volto deturpato che si innamora di lui. Dopo molteplici  incontri con strane creature sovrannaturali, i due riusciranno alla fine a ritrovare i tre discepoli e a sconfiggere le forze del male, anche grazie al sodalizio e alla 'fusione fisica' tra Meiyan e la bellissima e potente principessa Xiaoshan.


Quello di Jeff Lau è un cinema che fa dello squilibrio e delle alterazioni visive e drammaturgiche gli elementi cardine di un'estetica onnicomprensiva, dove il racconto avventuroso si fonde all'artigianato più grezzo, e i toni demenziali e kitsh da cinema esotico-alternativo convergono con impressionanti battaglie galattiche alla George Lucas. Certo è che la componente ludica del film di Lau, innegabile e contagiosa una volta superato lo stordimento iniziale, si rivela talmente consapevole da togliere spazio definitivamente a ogni possibile concettualizzazione rigorosa dell'immagine filmica, forse incapace persino di legarsi al visibile odierno comunemente accettato. Impossibile rimanere insensibili allora di fronte a un linguaggio così spiazzante e anarchico, pastiche barocco dove Terra, Vento e Fuoco sembrano essere i veri elementi protagonisti, riuscendo così a dare ad A Chinese Tall Story una dimensione a-temporale che annulla il Cinema stesso, per farsi oggetto artistico multiforme.

Che è poi lo stesso approdo a cui arriva il giapponese The Great Yokai War, e più in generale, l'intera filmografia di Takashi Miike, geniale autore che non smette mai di stupirci per i continui deragliamenti estetici, i rilanci reiterati e contradditori con cui compone una carriera artistica continuamente spezzata e trasversale. Cineasta prolifico (69 titoli in 15 anni) e delirante, l'autore giapponese prosegue, con la consueta maestria tecnica, a disorientare il nostro sguardo attraversando i generi, scardinando le regole del 'visibile' e mantenendo fede a una cupezza di fondo e a una profondità di campo sempre invidiabili. In The Great Yokai War non c'è traccia degli estremismi provocatorii e scatologici di Visitor Q, delle atmosfere inquietanti di Audition, né degli impulsi ipertrofici di Izo o Ichi the Killer, ma piuttosto sembra appartenere alla parabola fantastica di formazione che vede nel cinema hollywoodiano di Spielberg e dell'ultimo Peter Jackson i suoi archetipi più immediati. Il piccolo Tadashi è un bambino timido che vive con la mamma e il nonno. Quando una sera, durante una festa religiosa in un villaggio, viene scelto come Cavaliere Kirin, riceve inconsapevolmente le chiavi di accesso per un mondo nuovo e fantastico, dove la sua nuova missione sarà quella di impossessarsi della spada magica yokai e difendere il mondo, assieme ai simpatici spiritelli e mostriciattoli yokai, dalle forse del male dominate da macchine distruttrici, il cui primo scopo è radere al suolo Tokyo.


Per i tempi di lavoro di Miike, The Great Yokai War rappresenta un'eccezione piuttosto evidente. Costato 12 millioni di dollari e un anno di lavoro, è sicuramente il film più convenzionale e istituzionalmente controllato del regista. A sorprendere però non è tanto la suggestione visionaria dell'opera, né la grande abilità di Miike nell'assemblare scenografie e attori 'reali' con inserti in digitale, plastilina, e 3D, quanto la coerenza con cui, anche attraverso un fantasy per bambini, il cineasta nipponico riesca a parlarci ancora una volta dei temi a lui più cari quali la morte, il terrore nel quotidiano, il fascino del mostruoso rappresentato (qui visto anche con contorni positivi e fiabeschi) e della violenza sadica (riconoscibilissima in vari frammenti e forse ancor più ambiguamente disturbante proprio perché utilizzata con finalità grossolanamente ironiche). Con The Great Yokai War Miike riesce poi a parlarci in modo per niente banale del passaggio dall'infanzia all'età adulta, dell'importanza di saper (ancora) vedere un mondo fantastico e irreale, lontano da una quotidianità quella sì popolata da fantasmi umani desolati e senza amore. Un sogno di due ore?! Un sogno sublime la cui utopia mette i brividi se inserita in un finale dove uno squarcio di Tokyo ridotta in macerie non sembra poi così lontano dalle Hiroshima e Sarajevo del nostro mondo (mai sognato).  

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